Ho preparato il presepe, come ogni anno, anche questa volta.
E mentre lo guardavo, con un pò di diffidenza, dico la verità, perchè le festività natalizie, con i loro riti e apparecchiature, di questi tempi, mi sembrano impegnative, ed eccessivamente consumistiche, insomma, mentre lo montavo e lo guardavo, ci pensavo e ripensavo, a questa rappresentazione tradizionale.
Passavo ripassavo, compiendo, forse involontariamente, i gesti ed i movimenti di sempre, sempre quelli, sempre gli stessi, ormai quasi antichi, composti dall’abitudine dalla circostanza…
Sempre cosi, sempre lo stesso, sempre ad un modo, là, nell’angolo, ‘apertura della scatola di cartone che durante tutto l’anno riposa in soffitta e che, l’8 dicembre, il giorno dell’Immacolata, ma quest’anno siamo arrivati lunghi, in ritardo, a festa già celebrata, in effetti era il 10, ieri,ormai…
La scatola di cartone, anch’essa sempre uguale, uno scatolone che ormai ha la sua età anche lei, una quindicina di anni, o più, paziente, silenziosa, là in soffitta, fino al momento di festa che, una volta all’anno, anche lei si gode – ma sempre silenziosamente – e, poi, il prelevamento dei pochi pezzi del mio presepio minimalista, spoglio, povero, quasi squallido e freddo, il posizionamento preciso sul mobile, nel salone, sempre nello stesso punto, su quella base-piattaforma che sembra una penisola in mezzo al deserto, sotto un arco squadrato formato da una colonna ed un pilastro, attaccato con l’incastro al mobile lucido, nero, libreria della sala centrale di casa, le chiacchiere sempre ironicamente sfottenti che ci lanciamo, in questo frangente di calda noia ritualizzata, noi di casa, il tentativo, ogni volta assurdo eppure sempre, come ogni volta sentito e partecipato, di dare pure un senso, pure che fosse di recupero razionale, a questa novena dal sapore dolciastro e troppo zuccheroso…
Insomma, quella celebrazione che ogni anno, in quasi tutte le case, qui intorno, si svolge con un calore sempre più sottile, consunto, sfilacciato, più un ricordo di qualcosa che è stata una volta e ormai non è quasi più, solo il ricordo sbiadito di un’emozione, di sentimenti desueti, antiquati, demodè, cose che solo negli occhi dei bambini continuano miracolosamente a fare luce, a dare una spinta, un’energia chissà come rinnovata e ritrovata…
Già, ma da me, ormai, di bambini, non ce n’è.
Quindi, la pur volontaria corvèe, si è svolta anche quest’anno, sebbene, più saggiamente, adeguatamente riformata e rivista nei suoi aspetti più fanatici ed esibizionistici, si, insomma, dall’anno scorso, l’albero è stato ridotto ad un piccolo pinetto verde, addobbato con lucine bianche, ed un filo di palline rosse, che corrono avvolgendo tutto il corpo dell’abero, coperto di puntuti aghi verdi.
Mentre montavo il presepe, mentre quella strana allegria che pure corre in casa, in questi momenti, forse perchè a fianco del filo di stanco abbandono di questa cerimonia periodica resta pur sempre una boccata di aria nostalgica che riscalda i meandri del cuore più bisognosi di un abbraccio, nelle battute un poco crudeli che si fanno in questi momenti, mi è venuta da fare una considerazione.
Che, poi, è quella che voglio condividere su questa pagina del blog, forse per desiderio di condividere con qualcun altro, ciò che mi corso per la mente, come un lampo, una corrente quasi prepotente, un poco violenta, involontaria ma necessariamente esorcistica di quelle paure che il tempo che stiamo vivendo ci mette addosso come un fardello troppo pesante…
Si, insomma, guiardavo questo strano presepe asfitticamente stilizzato. La foto, sopra, ne rende l’immagine.
Io, per solidarizzare ancora di più con lo spirito essenzialista di questa ristretta installazione, ho anche tolto il colore, e ristretto l’angolo di ripresa, e invece della camera reflex ho adoperato l’obiettivo schiacciato e povero dello smartphone…
Insomma, guardando quest’opera d’arte povera, non ho potuto fare a meno di considerare che, in senso realistico, avevo, ancora una volta realizzato la rappresentazione di una situazione molto difficile, dolorosa, complicata, la mia, quella del presepe, è la scena di una tragedia sociale, simile, uguale, a tante altre che, indifferentemente, ci contornano, ma che scanziamo ed evitiamo, come ciechi attenti ad evitare un inciampo pericoloso.
Una capanna di fortuna.
Una mangiatoia e due bestie di fortuna e riparo.
Una coppia irregolare.
Fuggitivi.
Clandestini, in terra straniera.
Ricercati dalle forze dell’ordine.
Poveri.
Nascosti.
Senza dimora.
In fuga, per evitare gli esiti di una burocratica conta razziale, pericolosa e prepotente.
Lei, giovane, forse minore d’età.
Incinta.
In stato di gravidanza molto avanzata.
Senza marito.
Forse un compagno, forse un accompagnatore pietoso.
Eppure pieni di calore, l’uno per l’altra, unico combustibile per riscaldare l’inverno della terra palestinese (per la cronaca, oggi, a Betlemme, temperature comprese fra 1 e 13° centigradi).
Per annunciare la nascita del piccolo nascituro, solo il cielo, e le stelle, e, evento siderale, una complice cometa con i suoi ritorni periodici astrali.
Un angelo, figlio, forse, più di un sogno che di una mezza verità, a vegliare sul quella capanna, stalla, dimora temporanea clandestina.
E, lontani, alcuni remoti visitatori.
Stranieri anch’essi.
Di razze remote e sconosciute.
Portatori di culture meticce.
Fedi infedeli.
Credenze pagane, ataviche, ancestrali, sprofondate nei millenni oscuri senza storia.
Pelle di colore irregolare.
Nera.
Rossa.
Olivastra.
Gialla.
Lingue, o idiomi, incomprensibili.
Usanze probabilmente barbariche.
Insomma, irrimediabilmente stranieri.
Quindi infidi, inaffidabili, pericolosi.
Gente da tenere alla larga.
Da sottoporre ad accurati controlli, visti, registrazioni, passaporti…
Eppure dannatamente fortunati.
Perchè, a differenza di tutti i re magi che arrivano oggi in Europa, sulle coste italiane, maltesi, greche, turche, spagnole, per spingersi verso i cristiani di Alemannia, Franconia, Anglia, Sassonia, quelli non hanno viaggiato su gommoni e barche di fortuna in mezzo al mare salato in tempesta, ma sulle solide zampe di robusti cammelli!