PARADISO e INFERNO A NAPOLI

Questa piccola antologia della poesia napoletana dà voce alla fantasia di un popolo che, con la sua lingua sa dare corpo e voce anche all’aldilà, all’oltre, al Paradiso o… all’Inferno, ovunque essi siano collocati, in cielo, in terra, o nel cuore di chi vive per le strade ed i vicoli della città…

INGIUSTA CENSURA DA YOUTUBE

 

Circa dieci anni, l’8 gennaio 2010, ho pubblicato il video qui sotto (l’immagine in evidenza è Paul Celan):

Si tratta della poesia di Paul Celan, Fuga di morte, nella doppia versione, in italiano, recitata da Maddalena Crippa, e poi, in originale, direttamente dalla voce dell’Autore. Ad accompagnare la doppia recitazione, immagini. Per una poesia di dolore, il dolore della follia nazista, immagini di dolore, immagini della follia della guerra, della più cruenta e più ingiustificabile delle guerre. Per la follia di questa guerra, sono stati predisposti armamentari di industrializzazione delle morte, come i campi di sterminio, i bombardamenti a tappeto contro i civili, le bombe atomiche. Questo dolore dice la poesia di Celan, questo dolore dicono le immagini. Questa follia denuncia Celan, questa follia denunciano le immagini.

Lo scorso 19 ottobre, ho riceuto da youtube questa comunicazione sulla casella di posta elettronica:

Evidenzio che nella comunicazione viene specificato che il video è stato segnalato per la revisione in quanto si tratterebbe dicontenuti non consentiti dalle policy di youtube. Inoltre, con assoluta genericità, non si fa alcun riferimento a chi abbia effettuato la segnalazione, nè sono riuscito a trovare il modo per avere informazioni al riguardo. Un pò come il povero signor K, del “Processo” di Kafka, mi sono trovato, una mattina, le forze all’ordine di youtibe in casa mia, ad accusarmi, senza fornire una prova per consentirmi una difesa. Solo il riferimento a “questo modulo” e la dchiarazione che il team di youtube “esaminerà il ricorso e ti (mi n.d.a.) contatterà a breve”. Ovviamente ho immediatamente sporto reclamo. Stupidamente non ho fatto copia del testo che ho compilato.

Il 29 ottobre, ho ricevuto la seguente risposta dalla corte di censura di youtube:

Sottolineo il responso: “Dopo un ulteriore esame, abbiamo stabilito che benchè non violi le Norme della community, il tuo (mio n.d.a.) video potrebbe non essere appropriato per un pubblico generico. Il tuo video è stato pertanto sottoposto a limiti di età”. Quindi, per tutti color che hanno meno di 18 anni, il video è precluso. Vale a dire che, per tutti coloro che hanno meno di 18 anni, non è appropriato conoscere la denuncia della violenza e condannare la follia della guerra.

Mi colpiscono alcuni aspetti della procedura, a causa dei quali non posso che chiamare censua questo procedimento:

  • il video censurato è sul web da oltre 10 anni
  • non viene fornita alcuna notizia riguardo l’autore della segnalazione, che quindi resta del tutto anonima
  • non viene fornita nessuna motivazione in merito ai contenuti che determinerebbero l’ianappropriatezza del vide al pubblico dei cosiddetti minori
  • anzi, viene formalmente scritto che nonostante le Norme non siano violate, si procede comunque alla censura

Ho provato a cercare sul sito di youtube se fosse prevista una ulteriore possibilità di contraddittorio, almeno per motivi di procedura, come una specie di cassazione. Ebbene, non ho trovato accessi, anzi adesso non posso neppure più accedere al modulo di ricorso che avevo presentato.

TUTTO QUESTO NON POSSO TOLLERARLO!

Concludo precisando che dal procedimento adottato non c’è modo di sapere se:

  • il video è stato segnalato perchè l’argomento “nazismo/guerra” è inappropriato. In tal caso, chi lo ha segnalato potrebbe averlo fatto per simpatia nei confronti di quella idelogia. Una forma di censura politica, insomma.
  • le immagini sono inappropriate perchè descrivono guerra, sterminio, morte. In tal caso, andrebbe censurato ogni riferimento alla materia trattata, benchè, chiunque abbia modo di vedere il video potrà facilmente verificare che si tratta di immagini che sono prese dal web e che in nessun caso sono di per sè equivocamente utilizzate per scopi riprovevoli
  • rappresentare con parole e immagini ciò che è NORMALMENTE argomento di approfondimento scolastico è, adesso, per volontà di una censura immotivata, stupida ed assurda, inappropriato ad un pubblico NORMALMENTE scolastico.
  • la censura si è appropriata di del web ed un cittadino deve restare senza difesa.

IO DICHIARO CHE QUESTO COMPORTAMENTO E’ INNAPPROPRIATO PER UN PUBBLICO ADULTO.

IL MONDO

WP_20170625_21_06_55_Pro

Fuori.
Dentro.
Mi sembra che non abbiano più differenza, i sgnificati di queste parole.

Fuori.
C’è uno spazio, là, davanti, che si può raggiungere, se si vuole abbastanza.
Certe volte sarebbe anche caparbio, testardo, solitario, rinficcato nel suo guscio, alla fine di un chilometro lunghissimo, così aspro che non vuole farsi vedere iù da nessuno, come certi bambini timidi, o certi ostinati vecchi malinconici.
Ma questa volta no, non si tratta di lontananza, di sogni, di chimere, malinconiche isole della Thule.
Stavolta no.

Fuori dal mondo, fuori dalla città, fuori dalla porta, fuori dalla finestra…
Prorio lì, dietro al vetro, nello specchi che rifrange un riflesso di sole.
Sta lì, attaccato, uno spicchio di palazzo, un riquadro di finestra, un adesivo di vita che si muove, che non si tiene con la colla e che, pure, scivola via, ma non cade per terra, non lo afferra il soffio del vento.
E’ il tempo, che lo trascina, lo muove e con il movimento lo annienta.
C’era, là fuori, un attimo fa, quella creatura, in quella cucina a me sconosciuta, indaffarata, intenta a construire il suo presente, a dargli un senso, il valore di un tempo che per me non ha senso, nessun significato.
Solo il vago riflesso di qualcosa che io so, che conosco così bene che m’accorgo che, adesso, là fuori, non è il mio, quel tempo.

Fuori, è un luogo lontano.
Una vita non mia, un tempo che scorre in un altro universo, regolato da altri astri, sconosciute stelle nell’ombra notturna.
Un vago riflesso che ha il sapore antico del pane, eppure, nella mia bocca arsa di sete, curiosa, stupìta, non riesco a conoscere più.
Fuori, è una dimensione remota, un sogno mai nato in un sonno che vivo da sveglio.
In questo mio sonno di prigioniero, il mio sogno di andare là fuori, in quel mondo lontano, e bere quella vita che scorre sul vetro, che cola come nei giorni di pioggia.
Ma oggi c’è il sole, è un’estate precoce, il pomeriggio si è quasi stanzato, fra poco arriva la sera.

Io guardo il riflesso di sole nel vetro, quel quadretto di vita appiccicato sul vetro, quel tempo che si compie, eterno, infinito, là fuori.
Lo guardo.
Sto dentro.
Un brivido mi sccuote, come una scossa.
Di soprassalto, questa parola, mi coglie alle spalle.
Dentro.
Dentro una vita che sembra non essere più la mia vita.
Dentro una stanza, dentro una casa, in una città che non sta più dentro quel mondo in cui sono cresciuto, che ho abitato fino a quel giorno in cui hanno girato la chiave.
Dentro una vita, ormai, come dentro una cella.

La finestra è sul confine del mondo.
Il mio, qua dentro, sta chiuso, e strepita, batte, vuole uscire.
Ma il silenzio lo avvolge.
Come una nebbia.
Fin quando vien buio.
Poi tutto svanisce.
Lo guardo, il mio mondo, e neppure lo vedo.
La finestra, è il confine del mondo.
Sta giungendo, alfine, la sera.
La finestra va chiusa.
La maniglia, cedevole, fa il suo solito giro di vite.
E io resto fuori.
Vagando, è ormai scuro, in un mondo straniero.

LAVORO

SUL LAVORO

Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.

E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l’anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l’infinito.
Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all’unisono ?
Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.
Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo : tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.
Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.
E cos’è lavorare con amore ?
E’ tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E’ costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E’ spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E’ diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.
Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
“Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l’arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi”.
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d’erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.
Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l’elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l’uomo del tutto.
E se spremete l’uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l’uomo sordo alle voci del giorno e della notte.

Da: Il Profeta di Khalil Gibran

E LA MORTE NON AVRA’ PIU’ DOMINIO
Dalla voce del poeta:

E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite
                                               scomparse,
ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
benché impazziscono saranno sani di mente,
benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
e la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono,
cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
si spaccherà la fede in quelle mani
e l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
e la morte non avrà più dominio.

E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
dove un fiore spuntò non potrà un fiore
mai più sfidare i colpi della pioggia;
ma benché pazzi e morti stecchiti;
le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà,
e la morte non avrà più dominio.

da Diciotto poesie di Dylan Thomas

DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio
aveva palazzi solo per i suoi abitanti? Anche nella favolosa
Atlantide
La notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
Aiuto ai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta
Gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre lui l’ha vinta?

Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grande uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
quante domande.

Bertolt Brecht

Le pratiche inevase

 

Signore, a fare data dal mese prossimo
Voglia accettare le mie dimissioni
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, credo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare
Città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
costruirmi una casa,
forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro
Meraviglioso, caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti,
alleviato dolori e paure,
sciolto dubbi, donato a molta gente
il beneficio del pianto e del riso.
Ne troverà la traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
non ho avuto tempo per svolgerla. E’ peccato,
sarebbe stata un ‘opera fondamentale.
(19 aprile 1981)

Da: Ad ora incerta, di Primo Levi

Fravecatore

All’acqua e a ‘o sole fràveca
cu na cucchiara ‘mmano,
pe’ ll’aria ‘ncopp’a n’anneto,
fore a nu quinto piano.

Nu pede miso fauzo,
nu muvimento stuorto,
e fa nu vuolo ‘e l’angelo:
primma c’arriva, è muorto.

Nu strillo; e po’ n’accorrere:
gente e fravecature.
– Risciata ancora… E’ Ruoppolo!
Tene ddoie criature!

L’aizano e s’ ‘o portano
cu na carretta a mano.
Se move ancora ll’anneto
fore d’ ‘o quinto piano.

E passa stu sparpetuo,
cchiú d’uno corre appriesso;
e n’ato, ‘ncopp’a n’anneto,
canta e fatica ‘o stesso.

‘Nterra, na pala ‘e cavece
cummoglia ‘a macchia ‘e sango,
e ‘e sghizze se sceréano
cu ‘e scarpe sporche ‘e fango.

Quanno ô spitale arrivano,
la folla è trattenuta,
e chi sape ‘a disgrazia
racconta comm’è gghiuta.

E attuorno, tutt’ ‘o popolo:
– Madonna! – Avite visto?
– D’ ‘o quinto piano! – ‘E Virgine!
– E comme, Giesucristo … ?!

E po’ accumpare pallido
chillo c’ ‘ha accumpagnato:
e, primma ca ce ‘o spiano,
fa segno ca è spirato.

Cu ‘o friddo dint’a ll’anema,
la folla s’alluntana;
‘e lume già s’appicciano;
la via se fa stramana.

E ‘a casa, po’, ‘e manibbele,
muorte, poveri figlie,
mentre magnano, a tavola,
ce ‘o diceno a ‘e famiglie.

‘E mamme ‘e figlie abbracciano,
nu sposo abbraccia ‘a sposa…
E na mugliera trepida,
aspetta, e nn’arreposa.

S’appenne ‘a copp’a ll’asteco;
sente ‘o rilorgio: ‘e nnove!
Se dice nu rusario…
e aspetta e nun se move.

L’acqua p’ ‘o troppo vóllere
s’è strutta ‘int’ ‘a tiana,
‘o ffuoco è fatto cénnere.
Se sente na campana.

E ‘e ppiccerelle chiagneno
pecché vonno magna’:
– Mammà, mettímmo ‘a tavula!
– Si nun vene papà?

‘A porta! Tuzzuléano:
– Foss’ísso? – E va ‘arapi’.
– Chi site? -‘O capo d’opera.
Ruoppolo abita qui?

– Gnorsì, quacche disgrazia?
Io veco tanta gente…
– Calmateve, vestíteve…
– Madonna! – ‘E cosa ‘e niente.

‘E sciuliato ‘a l’anneto
d’ ‘o primmo piano. – Uh, Dio!
e sta ô spitale? – E logico.
– Uh, Pascalino mio!

E ddoie criature sbarrano
ll’uocchie senza capi’;
a mamma, disperannose,
nu lampo a se vesti’;

e cchiude ‘a dinto; e scenneno
pe’ grade cu ‘e cerine.
– Donna Rache’! – Maritemo
che ssà, sta ê Pellerine.

E’ sciuliato ‘a ll’anneto.
Sì, d’ ‘o sicondo piano.
E via facenno st’anneto,
ca saglie chiano chiano.

– Diciteme, spiegateme.
– Curaggio. – E’ muorto?! – E’ muorto!
D ‘o quinto piano. ‘All’anneto.
Nu pede miso stuorto.

P’ ‘o schianto, senza chiagnere,
s’abbatte e perde ‘e senze.
E’ Dio ca vo’ na pausa
a tutte ‘e sufferenze.

E quanno ‘a casa ‘a portano,
trovano ‘e ppiccerelle
‘nterra, addurmute. E luceno
‘nfaccia ddoie lagremelle.

di: Raffaele Viviani

 

IL SOLDATO E IL NEMICO

img_20200412_195041

Sto a guardare, come tutti, dietro alla finestra, sento battere il passo del tempo.
Le settimane, poi, i giorni, le ore… ecco, si fanno confusi.
Nel ricordo si confondono, s’allargano, si perdono, s’accalcano uno sull’altro.
Son tutti uguali, ma se non è vero, è soltanto un inganno.
E’ una tattica vile, in questo tempo di guerra.

La guerra, anche stavolta, nessuno l’ha dichiarata.
Mi sono arruolato senza saperlo, sicuramente senza neanche volerlo.
Mi sono vestito d’una divisa, e adesso, in marcia, sollevo alta una bandiera.
Io, che non ho mai avuto in simpatia nè le bandiere, nè le divise e neanche la marcia.
Cerco le armi di ordinanza, e non riesco a trovarle.

La divisa che porto addosso, ormai, non so più nemmenoda quanto, è fatta di panni comuni.
Niente lustrini, alamari, o bottoni dorati.
Solo elastici, maniche tirate su, pantaloni comodi, un pò lisi.
Reparto guastatori, di quelli, silenziosi, che sono invisibili di notte e restano muti.
Di giorno, recluso, in attesa, vivo che passi il mio turno, felice d’esser soldato.

La bandiera hai per colori il turchino del cielo ed il giallo del sole.
Un cerchio al centro, è il mondo, rinchiuso dentro la cornice di stoffa.
Il vento, vecchio generale in rassegna, sbatte, schiaffeggia i soldati.
Strepita, torvo, mentre mi guarda, urla qualcosa, nel muto linguaggio del militare.
Ma mi vergogno perchè è prgioniero, il mondo rotondo, dentro il rettangolo della bandiera.

Sono un soldato che combatte la sua guerra ogni giorno, contro il nemico.
Spio, dallo squadrato pertugio della finestra, quello che accade nel mondo.
Conto i passi, i nemici, i minuti, i secondi, i palpiti, il cuore che batte.
Si sono fatti uguali uno all’altro, anche se so che non è vero, è un inganno.
Sentinella, sto, dietro i verti, vedo garrire la bandiera, il mio generale, furibondo, che urla.

Porto addosso armi che non ho mai visto, e non le so usare, soldato vile e impaurito.
Il nemico, in agguato, ha preso la forma di mille fantasmi.
Invisibile, silenzioso, muto, è una malattia.
Il generale urla che devo difendere la patria di tutti.
Io, che porto la bandiera del cielo e del sole, la divisa degli abiti dei giorni comuni.

Dietro la finestra, vedo scorrere il tempo, conto i giorni le ore, i minuti.
Ogni istante è un soldatino di piombo.
“Chi va là?”, d’un tratto urla al vento la bandiera coi colori del cielo.
Il silenzio sussurra una muta risposta che nessuno comprende.
Il nemico ci guarda dai vetri, impaurito, lo indico e tremo.

Impaurito, io, sono io, il nemico, mi mette paura.
E gli chiedo “Perchè sei venuto? Cos’ancora vai cercando da noi?”
“Tu m’hai chiamato nemico, soldato, io andavo soltanto sospinto dal vento”.
Il muto silenzio ha parole più profonde del cielo che s’è fatto bandiera.
Il cerchio del mondo è prigioniero della bandiera quadrata dipinta di blu.

QUARANTENA

cioran_in_romania
Emile CIORAN

LE DOMENICHE DELLA VITA
Se i pomeriggi domenicali si protraessero per mesi, dove andrebbe a finire l’umanità, emancipata dal sudore, libera dal peso della prima maledizione? L’esperimento varrebbe la pena di esser fatto.
Con ogni probabilità il crimine diverrebbe l’unico svago, la dissolutezza parrebbe candore, l’urlo melodia e il sogghigno tenerezza.
La sensazione dell’immensità del tempo farebbe di ogni secondo un supplizio intollerabile, una cornice da esecuzione capitale.
Nei cuori pervasi di poesia si insedierebbero un cannibalismo annoiato e una tristezza da iena; i macellai e i carnefici morirebbero di languore; le chiese e i bordelli risuonerebbero di sospiri. L’universo trasformato in pomeriggio domenicale: è la definizione della noia — e la fine dell’universo…
Togliete la maledizione sospesa sopra la Storia: questa si annulla subito, così come l’esistenza, nella vacanza assoluta, svela la propria finzione.
Il lavoro costruito nel nulla crea e consolida miti; ebbrezza elementare, esso suscita e mantiene la fede nella «realtà»; ma la contemplazione della pura esistenza, contemplazione indipendente da gesti e da oggetti, assimila soltanto ciò che non è…
Gli sfaccendati allertano più cose e sono più fondi degli indaffarat: nessun compito limita l loro orizzonte; nati in una eterna domenica essi guardano – e si guardano guardare. La pigrizia è uno scetticismo fisiologico, il dubbio della carne. In un mondo ebbro di ozio, soltanto loro non sarebbero assassini. Ma essi non fanno parte dell’umanità e, poiché il sudore non è il loro forte, vivono senza subire le conseguenze della Vita e del Peccato. Non facendo né il bene né il male, disdegnano — spettatori dell’epilessla umana — le settimane del tempo, gli sforzi che asfissiano la coscienza. Che cosa potrebbero temere dal prolungarsi illimitato di certi pomeriggi se non il rimpianto di aver sostenuto evidenze palesemente elementari? Allora l’esasperazione nel vero potrebbe indurli a imitare gli altri e a cedere alla avvilente tentazione del lavoro. Questo è il pericolo che incombe sulla pigrizia — miracolosa sopravvivenza del paradiso.
(L’unica funzione dell’amore è quella di aiutarci a sopportare i pomeriggi domenicali, crudeli e incommensurabili, che ci feriscono per il resto della settimana — e per l’eternità.
Senza l’impulso dello spasmo ancestrale, ci occorrerebbero mille occhi per lacrime nascoste, oppure unghie da rosicchiare, unghie chilometriche… Come ammazzare altrimenti un tempo che non scorre più? ln queste domeniche interminabili il male d’essere si manifesta pienamente. A volte riusciamo a dimenticare noi stessi in qualche cosa; ma come fare a dimenticare noi stessi proprio nel mondo? Tale impossibilità è la definizione di quel male. Chi ne è colpito non guarirà mai, nemmeno se l’universo cambiasse completamente. Solo il suo cuore dovrebbe cambiare, ma esso è immutabile; sicché, per lui, esistere ha un unico senso: immergersi nella sofferenza — fino a che l’esercizio di una quotidiana nirvanizzazione non lo innalzi alla percezione dell’irrealtà…)

Emile CIORAN. Sommario di decomposizione (1949)

Il Sommario è un libro che ho comprato tanti anni, tanti.
Cioran è un autore nichilista, credo sia la definizione perfetta della sua opera, anche se non so, in realtà, come venga catalogato dai critici letterari.
La sua opera, questa intendo, è, come dice il titolo, la più assurda – per me – attività artistica che un essere umano possa avere mai tentato: descrivere, da vivo, il nulla della vita, l’inane tentativo che si compie, come Sisifo, ogni volta, nel provare a dare senso al fatto di essere al mondo.
E’ scritto così bene, così lucidamente, da provare paura, nel leggere il Sommario, per il fatto di stare compiendo – per l’ennesima volta, uomo, sulla terra, che, ennesimo dopo ennesimi vani inutili tentativi, si illude di porvare a dare senso al fatto di esser vivi – quell’inane tentativo. Così perfettamente viene dimostrata tale inutilità, tale insensata stupidità, da non dare più alcun senso all’idea di continuare a vivere nello sforzo di essere al mondo.

Pure se Cioran è stato uno scrittore straordinario – la bellezza convincente della sua prosa profetica è tra le più alte vette letterarie che abbia avuto modo di conoscere – io non lo amo molto.
Quando ho provato a leggere il Sommario – che sa di necrosi, di morte, di decomposizione, appunto – mi sono domandato il senso.
Cioè, se non ha senso l’esser vivi, e ciò viene dimostrato assolutamente in modo inappellabile – che senso può avere avuto, per l’autore, mettersi a scrivere?
Quale sentimento può averlo mosso, spinto?
Certo non empatia per i suoi simili.
Nè desiderio di sentirsi vivo.
Al massimo, un tentativo di autinganno, di autoillusione.
Consa può averlo convinto, lui zombie vivente nella consapevolezza della nullità di ogni sforzo, ad uscire dalla tana sotterranea in cui si consuma la vita di ogni bestia umana?

Kafka, già qualche decennio prima, prima della grande guerra, ma presago del rischio di annichilimento della vita, con il racconto “Nella tana”, aveva dato forma descrittiva al lavorio continuo, inessante, istintuale, in cui si consuma la vita della bestia-uomo.
Ma pure se ridotto a bestia-uomo, come nella “Metamorfosi”, uomo-insetto, uomo-blatta, strisciante, viscido, lurido, anche nella tana, la vta resta l’unico istinto a cui si sottomette la massa pulsante fatta di carne e sangue che si chiama Uomo.
In Kafka, però, la vita resta dominatrice, forza a cui non si può ribellare l’essere naturale, seppure quell’essere ha perduto le fattezze umane, e con esse ogni senso di umanità. Dove umanità significa empatia, sentimento, anima, coscienza.
Però neppure Kafka aveva mai pensato, credo, che vivere fosse uno sforzo senza senso.
Si vive per espiare, per essere sottomessi alla forza brutale dell’istinto, alla bestialità del giogo sociale, ma anche se in quello sforzo animalesco, resta la necessità di vivere, una specie di fiamma che assomiglia alla speranza.
Vana, ma pur sempre una speranza.
Per Cioran quella fiamma si spegne del tutto.
Fine della speranza.

Questo è, almeno, quello che ho capito io, dalla aprte di libro che ho letto, perchè, in effetti, non l’ho letto, poi, fino in fondo.
Ma non perchè non fosse una bel libro.
Certo, se fosse stato un romanzo, lo avrei divorato, perchè il convincimento della finzione che avrebbe animato l’autore nel comporre, mi avrebbe fornito l’antidoto contro il nepente di tanta amara descrizione della vanità dell’essere.
Invece, ad un certo punto, mi sono posto quella domanda: Perchè? Quale finalità ha mai spinto l’autore a coltivare quello sforzo inumano?
Perchè pubblicare il Sommario?
Per il gusto di togliere ogni illusione agli altri suoi simili e fornire una buona ragione per lo sterminio collettivo?
Oppure, la pura vanità di apparire, se non si può Essere?
Mettersi una maschera per non comparire vuoti nello specchio in cui ci si riflette ogni mattino?
Una debolezza, una caduta tremenda di stile?
Comunque, nessuna di queste può essere una buona ragione, ho pensato, per continuare questo libro.
O è falso il libro, o preferisco continuare a vivere a modo mio.

Eppure, in questi giorni la vita pare sospesa.
Nelle pagine di Cioran si trova qualcosa che assomiglia paurosamente a quei pensieri che, sullo sfondo, tingono di scuro lo sfondo della vita al tempo del coronavirus.
Non è tanto una sensazione di paura, quanto una velatura di inadeguatezza.
La sensazione di essere sospesi fra un tempo passato – quello ieri così vicino al giorno di oggi che dura da quasi sei settimane, ormai – e un tempo futuro in cui poco a nulla assomiglierà a quello che conoscevamo.
Eppure, noi, la nostra generazione di viventi, come forse nessun’altra, mai, prima, abbiamo conosciuto la vita vivida e gorgoliante di incertezza del post-moderno.
Nessuna possibilità, più, ormai, avevamo, di poterci immaginare – o così ci pareva, almeno – il futuro, gravido di cambiamenti epocali, climatici, tecnologici, filosofici.
Siamo stati personaggi – comparse, più spesso che protagonisti – di una fantascienza senza limiti, di una realtà in grado di andare al di là di ogni fantasia o immaginazione, al di là del bene e del male…

Adesso, in questo tempo sospeso di quarantena, anche i nostri pensieri sono in quarantena.
Sembra di poter intravedere, pensandoci, un domani in cui anche i parametri dell’incertezza – in cui escresceva il nostro (passato) presente – si stannoo frantumando.
Vediamo, come in un ralenti onirico, andare in frantumi i criteri su cui si sono formate le nostre capacità di rappresentarci il futuro.
Anche la durata del tempo sembra essersi dilatata a dismisura, fino a farci apparire gli istanti lunghi come ore e le ore come anni.
E, così, immaginarci il domani senza quarantena, senza distanziamento sociale, senza più le misure di protezione da noi stessi, più che dagli altri, diventa un esercizio pericoloso, in cui si perde il senso della realtà, nel quale la concretezza sfuma in sogno, o in incubo, in certi istanti di agonia.
Cioran non avrebbe saputo dire meglio tutto questo.
Perchè anche lui ancora credeva nel propagarsi della pandemia letteraria.
Mentre noi, nella nostra pandemia virale, potremmo trovarci ad aver perso anche il senso delle parole.
E, in queste domeniche di silenzio, di pigrizia forzata, sembriamo fuorisciti dall’umanità.

VIA COL VENTO

img_20200404_151850-1

Come il vento, il silenzio soffia per le strade, in questi giorni inimmaginabili.
Il vento che soffia, oggi, portando, spingendo, premendo, schiacciando…
Il silenzio, così, porta, spinge, preme, schiaccia.
Soffia, il vento e spinge le nuvole, alte, del cielo, quasi fosse lui a sostenerle, come se potessero cadere se quello cessasse d’improvviso di svolgere il suo compito di sorreggere e spingere quegli sbuffi di mondo, leggeri, nel cielo.
Soffia, il silenzio e spinge i pensieri, alti, nel cielo, quasi fosse lui a sostenerli, come se potessero lentamente cadere se quello cessasse d’improvviso si svolgere il suo compito di tenere alto e mandare avanti quegli sbuffi di mondo, leggeri, nel cielo.

Il mondo si confonde col cielo.
Il mondo, fatto di cose materiali, e di pensieri immateriali, di cose pesanti e pensieri leggeri.
Il mondo, fatto di pensieri materiali, e di cose immateriali, di cose leggere e pensieri pesanti.
Il cielo, che sorregge cose materiali, e pensieri immateriali, cose pesanti e pensieri leggeri.
Il cielo, che sorregge pensieri materiali, e cose immateriali, cose leggere e pensieri pesanti.

Così, il vento si confonde col pensiero.
Il vento, fatto di nuvole e aria, oppure di pensieri immateriali, spinge le cose pesanti e i pensieri leggeri.
Il vento, fatto di pensieri materiali, e di cose immateriali, di cose leggere e pensieri pesanti.
Il pensiero, che regge cose materiali, e vento immateriale, cose pesanti e pensieri leggeri.
Il pensiero, che regge il vento materiale, e le cose immateriali, le cose leggere ed il vento pesante.

Il posto vicino, nel vento, si confonde con il mondo lontano.
Anche il pensiero, si confonde, e confonde il posto vicino col posto lontano.
Nel pensiero, le strade, e le piazze, o i vichi ed i viali, stasera, sono percorsi soltanto dal vento.
Il qui, che abito adesso, viene spinto lontano, dal vento.
E, nel pensiero, dolenti, vedo le strade, e le piazze che lentamente un giorno ho attraversato oppure, che mai, il mio piede calcò.
E, anche, mentre il vento mi spinge, lontano, corro nei vichi, o sui viali diritti…
E più non distinguo, se sono vicini, oppure lontani, se io li ho percorsi davvero, oppure se è stato il vento soltanto.

Si sovrappongono, come in foto impazzite,
in schegge di specchi, le case, i colori,
i suoni, le voci, i ricordi.
Vicino, lontano, il vento, il pensiero.
Leggera, pesante, scorre la vita.
Momenti son lunghi come l’eterno.
I giorni, sospinti dal vento, veloci.
Dove, non so, se vicino o lontano…

VITA

img_20200405_123039

 

Delle voci…
Un motore, un’auto che passa.
La metro, sul binario, lontano…
In cucina, hanno acceso la tivù, pubblicità, il forno che viene aperto, la vita, normalità, anormalità…

Il soffio del vento, una brezza piacevole.
Un motorino che passa…
Poi… niente…pausa…
Il silenzio…
Ma per un attimo, aprono un cartoccio, di là, si sente una voce, di fuori, dal balcone sale il motore di un’auto, un’altra …vita… normalità…anormalità…

Mi alzo
Solo con la mente, mentre invece resto seduto
Picchiettano i tasti, leggeri, della tastiera, al computer…
Poi… un soffio… il vento che passa in silenzio… poi niente… poi… pausa
Voci, nessuna, torna inidetro una metro, stanca, vuota, sfinita, povero bianco vagone, la solitudine, ti dondola invano la leggera frenata… vita…normale…anormale…

Forse… cinguettìi…
Parrocchetti verdi sorvolano i pini spettinati dal vento leggero…
Una voce di bimbo, lontana, sfuggita al silenzio…
Un rombo, un motore vicino, dentro, sul cielo, un’ombra, un fenicottero grigio, o giallo, a motore, con le eliche che affettano l’aria…
Un soffio di brezza, come il respiro del mondo, il treno metropolitano, che ritma il suo cuore battendo il binario… e si perde lontano
vita… normale… anormale…

CIECA PASSEGGIATA

eye
EYE – photo by Pierperrone

Camminavo, una volta, quando si poteva camminare, svagati, per le vie della città.
Uno di quei giorni che le gambe sono un pò flosce, camminavo, senza una vera ragione.
Forse saranno state stanche le gambe, chissà cosa mi passa per la testa.
Camminavo per le solite vie, quelle di sempre, e andavo con la testa persa in chissà quali pensieri.
A volte sono anche quelli ad andarsene in giro svagati, flosci, senza chiedere un permesso, senza neanche un avvertimento.
Io il permesso, l’avevo chiesto, invece, prima di uscire.
La testa mi faceva un pò male, forse era il gran vuoto, il senso di stanchezza, la noia, l’essersi perso…
Le tempie battevano, educatamente a dire il vero, come se chiedessero di dire qualcosa.
Ma io non stavo mica a sentirle.
E chè, non avevo voglia di niente, solo di andarmene, le mani sprofondate nel fondo delle tasche, sul tappeto mobile di una via qualunque.

Per fortuna in questa città ci sono tante strade e ognuna conduce da qualche parte, rimuginavo nella mia mente sovrappensiero, un poco svanita e un poco distratta.
“Si crede che sia così”, mi ha detto una voce, garbatamente.
Oh, beh, inizialmente non pensavo che si rivolgesse a me.
“Si crede che sia così, che ogni strada porti da qualche parte”, mi sono sentito ripetere, con un pò più di fermezza nella voce che si era fatta più alta.
Ma sempre con molto garbo.
“Eh, beh, ha ragione, tutti credono che sia proprio in questo modo, che ogni strada conduca in qualche posto”, ho detto io, annuendo col capo, il mio gesto amplificato dal largo cappello a falde che fendeva l’aria orgoglioso della raggiunta rotondità.
“Eh, è facile. Basta seguire una strada, anche una lunga e diritta, una di quelle che non sembrano avere uno sbocco, imbottigliate fra la quinta di fondo di uno scenario urbano qualsiasi ed i larghi palazzoni alti e compatti come muraglie inespugnabili.”
“Ma che bel modo di descrivere che ha, mia cara”, ho risposto, così, tanto per dire qualcosa.
Un pò complimentoso e un poco servile.
“Basta andare. E basta ancora meno, proprio come sta facendo ora lei, che cammina sopvrappensiero”.
“Cosa?”, ho chiesto, ma più così, tanto per non essere sgarbato fino in fondo.
“Ma lei lo sa dove sta andando? Mi dica, se lo sa, dove porta questa strada?”

Da qualche parte, ho pensato, trasecolando, sorpreso.
Ma perdìo, ogni strada porta da qualche parte.
Il punto è sapere dove si trova questa qualche parte a cui conduce questa strada.
Io per esempio so che ogni passo mi porta da qualche parte, potrei girare da questo lato, così, tanto per vedere a chi appartiene questa voce.
O potrei girare sui tacchi, tornare da qualche parte, di dove sono venuto…
“Si, ogni passo conduce da qualche parte, signore. Ha ragione”, la voce adesso voleva concedere qualcosa, per essere cortese.
Ma io la temevo, sapevo che aveva un coltello in mezzo ai denti, pronto ad affondarmelo dritto in mezzo alla
schiena.
“Si, signore, proprio come lei sta pensando. Ora può girare da questa parte, per sfuggirmi, oppure girarsene sui tacchi per ritornarsene sui suoi propri passi.”
A questo punto mi colse un’ansia incontenibile ma, insieme, molto sotterranea, come un brivido profondo, una scossa elettrica.
Cosa mai voleva dire quella voce che restava sospesa lì, al mio fianco?
E’ vero, non avevo fatto tentativi per sfuggirle, ma neanche avevo agito per portarmela insieme a spasso per la strada.
Non provai l’impulso di voltare la direzione del mio cammino.
Ero forse presuntuoso?
Eppure mi pareva così oltremodo surreale che quella voce mi stesse piano piano facendo sua preda.

Cominciavo a sentirmi come un animale in trappola.
Aspettavo la prossima mossa temendone l’imminente arrivo.
Giunse un soffio di vento, leggero, tiepido, odoroso.
Improvvisa, una folata di vita si era intrufolata nella mia silenziosa passeggiata.
D’istinto feci un gesto, non so se per scacciarla o per afferrarla.
“Si afferri a quella maniglia, la prenda, la prenda. Quel soffio è la sua vita che parte!”, m’invitò con decisione la voce.
Lo sapevo, ecco quel’era stata la sua mossa.
Prevista, attesa, tenuta.
Eppure imprevedibile allo stesso tempo, come tutte le cose della vita.
E’ giunto il momento che io faccia qualcosa, pensai scuotendo i miei pensieri.
Forza, decidetevi, voi, distratte volontà, fate qualcosa.
Posso voltare i passi da un’altra parte.
Oppure posso essere più originale, alzare gli occhi, guardare, ora, dove sono giunto, in questa cieca passeggiata, smentire con un attimo di identificazione ogni cattivo pensiero di questa voce malfidata.
Potrei anche chiedere a lei, se sa, mica, dove si trova, ora che sbruffoneggia contro di me, come fosse un vigile urbano che eleva, arrogante, la sua contravvenzione contro tutte le direzioni sbagliate della vita.
Potrei anche scacciarla in malomodo, come si scaccia una petulante mosca estiva, o schiacciarla, come una schizzinosa zanzara…

Il mare delle possibilità mi si spalancò davanti all’improvviso, con i suoi gorghi, le sue profondità sconosciute, le sue infinite possibilità di perdersi…
Decidere.
Ecco.
Questo era il compito.
Decidere dove andare, qualcosa da volere, qualcosa da fare.
I miei pensieri e le mie volontà hanno disertato.
Constato con tutta evidenza che ormai, dato che la leva obbligatoria è stata abolita, nei fortilizi militarizzati dei miei pensieri non è rimasto nessuno a difendere le mie postazioni.
Anche i miei passi, ormai, arrancavano, più annoiati che stanchi.
Era come il lento raffreddarsi del passo si una locomotiva.
Il marciapiede, diritto come un binario, mi conduceva sicuro, ma il mio treno non era segnato sull’orario appeso alla stazione.
E neanche la stazione si vedeva, ancora, affacciarsi all’orizzonte, con i suoi fazzoletti sventolati malinconicamente, i suoi singhiozzi, le sue speranze, i suoi sogni…
Una comitiva chiassosa schiamazzava poco lontano, ma ero sicuro che non erano loro i miei compagni di viaggio, nello scompartimento che stavo occupando forse senza biglietto.

Vedevo i pesanti sbuffi di caligine sputati dal comignolo della locomotiva che lenta stava ripartendo svanire poco a poco, farsi parte di quello, grigie nubi rigonfie di vapore grasso che entravano nel grande flusso del tempo.
Lo spazio si era fatto sempre più basso, sotto quella cappa pesante.
La luce del giorno s’infiacchiva sempre di più, come il mio desiderio di andarmene in giro a passeggio.
Avevo notato troppi dettagli.
Per un cieco è uno sforzo che può costare un’intera giornata.
Volevo chiedere scusa e svanire, anch’io, nell’ombra in cui stava svanendo il fumo della locomotiva a vapore che ormai era diventata un puntino nero perso nel punto di fuga della prospettiva di una vita annegata nel buio.
I miei passi distratti s’erano, me ne accorgevo, fatti accorti.
Avevo paura.
Il piede esitava.
L’esitazione stavolta era il terrore che il vuoto l’ingoiasse portandosi appresso tutto me stesso in quel vasto mare che non riesco neanche a vedere.
Sono cieco.
Dalla nascita.
Non ho mai visto il colore di un fiore.

Io sono cieco, si.
Ho sempre camminato così, distrattamente, senza vedere.
Sono una marionetta, un pupazzo, una speciale bambola senza fili.
Un meccanismo senza ingranaggi.
“Io sono cieco”, ho urlato.
La mia voce ha dato sulla voce alla voce.
Disperatamente.
Il silenzio dei sordi all’improvviso s’è spalancato come un baratro, davanti alla mia bocca.
La mia voce s’è inabissata in fondo a quel vuoto.
Ora sono sordo.
Ho pensato.
Perdutamente.
Sono un aquilone che sbatte le ali, distratto. Sono una cometa che vaga nel cielo bruciato.
Non so se l’ho pensato o se l’immaginazione mi ha ingannato anche stavolta.
Camminando nel vuoto ho imparato a tenermi sospeso nell’aria.
Sono leggero.
Solo una voce, ogni tanto, mi fa compagnia nei momenti in cui passeggio distratto…

LE STRADE

img_20200315_180314

LE STRADE
Le strade di Buenos Aires
ormai sono le mie viscere.
Non le avide strade,
scomode di folla e di strapazzo,
ma le strade indolenti del quartiere,
quasi invisibili poiché abituali,
intenerite di penombra di crepuscolo
e quelle più fuori mano
libere di alberi pietosi
dove austere casette appena si avventurano,
schiacciate da immortali distanze,
a perdersi nella profonda visione
di cielo e di pianura.
Sono per il solitario una promessa
perché migliaia di anime singole le popolano,
uniche davanti a Dio e nel tempo
e senza dubbio preziose.
Verso l’Ovest, il Nord e il Sud
si sono distese – e sono anche la patria – le strade:
Dio voglia che nei versi che traccio
ci siano quelle bandiere
(Jorge Luis Borges)

A me, pensavo, è sempre piaciuto fare fotografie, andando in giro.
Non sempre, però, mi è piaciuto scattare foto di strade affollate, di persone che si incrociano, si spingono, distratte, ognuna interessata ai suoi affari che chissà chi conoscerà mai…
Spesso, le foto che ho scattato, andando per città, luoghi, siti storici, monumenti, dentro musei o in chiese avvolte nella penombra, sono foto in cui la presenza degli uomini era esclusa, volutamente, studiatamente.
Angoli di palazzi, finestre, balconi, viuzze, stradoni, banchi per la preghiera, pietre antiche, piazze, e chissà quali altri dettagli ancora, spesso ho cercato di riprenderli nella loro intima natura, nella loro essenza persa nel tempo, per quello che sanno presentarsi dinanzi ai miei occhi nudi dei fronzoli contemporanei.
Forse, potrei dire che mi piace fotografare questo o quest’altro aspetto della vita come si presenta al naturale, nella sua solitudine.

Altre volte, invece, ho scattato foto a persone vive, ritraendo i sorrisi, le smorfie, i movimenti, i passi, i salti, i gesti involontari.
E mi sono sempre meravigliato, perchè c’è una bellezza calda, in queste foto così movimentate.
In genere, credo, foto così mi sono venute quando i luoghi in cui mi sono trovato li sentivo pieni di vita, mandavano onde, vibravano di qualcosa.
Non so spiegarlo, ovviamente.
Nè, io, sono un fotografo professionista, uno che studia l’inquadratura e pensa che debba essere così… o così…
In genere, credo, i luoghi che mi ispirano il senso del tempo andato, il passato, la memoria, quello che è eterno, cerco di riprenderlo senza tracce che possano inquinare quella purezza, distillata sotraendo ogni elemento di movimento.
Mentre, invece, ci sono situazioni, posti che brulicano di una vitalità intraprendente, di qualcosa che si deve rubare al volo, perchè può sfuggire e non ritornare mai più.
Una foto, per me, forse, è questo, un tentativo di fermare nello scatto qualcosa.
L’eternità.
Oppure l’attimo infinitesimale.

Oggi ho ripreso questo libro, quello da cui ho tratto la poesia che è in cima, lassù.
Le opere di Borges, volune 1, Meridiano Mondadori.
Un libro che ha già diversi anni.
Prezioso, diciamo, per i suoi contenuti.
Poesie, romanzi, alcuni racconti.
Borges è un autore profondo, che ha saputo fotografare l’eterno, ed anche l’attimo.
E’ questo che, forse, che mi piace di lui, più di tutto.
Questa profondità così piena, questa nitidezza di immagine.
Questa capacità di cogliere il vicino oppure il lontano, senza perdersi, anzi, creando dal profondo della sua arte luoghi e spazi che appartengono assolutamente al tempo, e al tempo stesso lo sfuggono del tutto.
Ci sono romanzi, racconti, descrizioni, memorie, poesie, frasi scavate da Borges nel marmo, come fossero di pietra morbida, docile, soffice come le parole, parole che l’autore sapeva scolpire con i colori ed il soffio della vita.

Questa poesia è piccola, poche parole, malinconiche.
Nostalgia di un luogo, di una città, di antiche radici che sprofondano nella memoria e non hanno bisogno di essere innaffiate per emanare un profumo tenue come certi fiori modesti.
Modestia di effetti, forse, in questa breve poesia.
Ma qualcosa che rispecchia il tempo che oggi sta vivendo il mondo.
Buenos Aires diventa Roma.
E Roma diventa grande come il mondo intero.
Perchè è il mondo intero, oggi, sperduto, nelle strade vuote, silenziose, indolenti, e invisibili, come ha saputo sentire l’autore.
E’ di un solitario, la meditazione di Borges che passeggia per le strade di una periferia che, vista da qui, ora, è una periferia del mondo.
Ma viste oggi, le strade solitarie, sono strade di periferia ovinque si trovino.
Periferie ovunque.
Il mondo intero, pare diventato un’infinita periferia di solitudini.
Oggi che sono vietate dal vocabolario degli uomini le parole che significano stare uniti, toccarsi, darsi addosso, le strade del mondo sono diventate strade solitarie.
Ed è una fortuna, per chi, come Borges, amava la solitudine.
Se ancora gli è restato, a quel qualcuno (non a Borges, morto nel 1986, ormai), l’amore per la solitudine.

Il silenzio delle strade oggi sembra rimbombare.
Andare solitari a fare la spesa e incontrare un clochard con tutta la sua casa raccolta dentro quattro borse sporche e tutto il guardaroba addosso fa male.
Meglio solitari.
Incorciare uno sperduto in infradito, oggi, nel pomeriggio tiepido e nuvoloso, che sputa die volte davanti ai suoi piedi mmentre cammina.
Fa la sua lavanda dei piedi solitara.
Non è arrivata nessuna solidarietà umana a fre compagnia a questi relitti.
Nè una carità a levarli dalla pena.
Mi guardo attorno attonito.
Mi sorprende sentire dentro di me il sollievo delle solite cose di casa.
La pagina calda di un vecchio libro.
La fortuna di poter curare la mia fame di vita con la mollica soffice di un pane fatto di chicchi di parole.
E poter sentire la fragranza di quel pane, dipanarsi come un aroma ghiotto, nutriente.
Il forno che ha potuto cuocere quel pane era caldo ancora, mentre Borges calpestava i marciapiedi incerti delle strade di Buonos Aires.
E, attraverso quelle strade, è giunto fino a qui, a Roma.
Lontano, solitario, eppure, così vicino, come un vecchio amico arrivato in soccorso.

Tremo alla parola soccorso.
Evocativa di altre paure, così vive come mai, prima.
La malattia, la sofferenza, la morte.
Pensieri che portano all’infinito all’eterno.
All’aldilà.
A ciò che c’è e che potrebbe non esserci più.
A ciò che non ha mai fine e che, per i deboli esseri umani, potrebbe finire per sempre in attimo.
A Dio.
Per chi crede.
Soccorso.
E il sollievo di poter essere accolti fra le braccia di qualcuno che sappia dare calore.
Un infermiere, oggi, un medico.
Si sente un freddo, in giro, come un vento gelato che corre per le strade solitarie dell’anima.
Strade che, dice Borges, si fanno larghe come l’Ovest, e il Nord, e il Sud.
E chissà perchè mai l’Est è svanito.
L’Est, là, da dove sorge il sole…

SENTINELLA

Viviamo, ora, nel silenzio, dietro le barriere, nascosti sotto le linee dei confini, al di qua dei limiti, pensando di essere protetti, di stare al sicuro.
E invece, non sappiamo cosa matura e cosa marcisce, dentro di noi.

Se aguzziamo bene i sensi, chissà, forse sentiamo il lieve fruscio che fa la vita, il suono del respiro, quello è facile da percepire, il battito del cuore, se ci concentriamo un pò, anche quello lo posssiamo sentire, e lo scorrere del sangue nelle vene, già quello è più difficile, ma ci aiuta il polso, o la tempia, se appena ci sfioriamo un poco più forte…

Vorremmo sentire il rumore che fa la vita, adesso che i rumori, fuori dalla finestra si sono attutiti, adesso che non si sentono più i clackson delle auto, le voci della strada, i camion, o gli autobus, e quella vibrazione sonora di sottofondo che adesso è sparita, svanita, evaporata…

Vorremmo sentire perchè le orecchie sono in agguato perenne, tese, ora più che mai, perchè dobbiamo difenderci, perchè siamo in pericolo, si, adesso.
Lo sappiamo, lo dice ogni minuto la tivvù, che, con il suo rumore amico, ci tendo l’agguato in ogni casa, in ogni stanza.
Lo dice la mamma al figlio, e il nonno alla nipotina, lo dice il giornalista, e il medico esperto di turno, o il politicante senza vergogna.

Siamo in pericolo.
E le orecchie fanno la sentinella.
Ogni istante.
Di giorno e anche di notte.
Soprattutto quando non sentiamo e non vediamo nulla, il pericolo è più letale.
Vibrano i nostri sensi, se ci facciamo caso.
Siamo diffidenti.
In attesa.
Sfiniti.
Impauriti.

Vogliamo sentire, perchè dove gli occhi non riescono a vedere, il pericolo è più subdolo, odiosamente recondito.
Vigliaccamente dissimulato.
Sotto la normalità delle nostre cose comuni, sopra o dietro, o dentro…
Si, proprio.
Dentro.
Si, proprio, dentro, dentro, dove diventa invisibile, dove si può nascondere, dove può far finta di essere sparito.
Dentro.
Là, anche dentro noi stessi.

E vorremmo sentirlo, il rumore che fa la vita, la nostra stessa vita, il nostro esistere, il nostro esserci, qui, adesso, sentirlo in questo momento, sentire come stiamo cambiando, come si nutre di noi la massa microbica che ci abita, noi, continente sterminato, vorremmo sentire la flora batterica che si accresce, e sentire come si consuma e, sentire, dopo che si è nutrita di noi, dentro di noi, sentire anche come muore, e, sentire, quindi, come ci nutre, pure, di noi stessi. Perfino…

E vorremmo sentire tutto questo perchè siamo spaventati, e vorremmo sentirci rassicurati.
Vorremmo combattere e lottare.
E invece non vediamo niente.
E non sentiamo niente.
E allora dobbiamo stare vigili, pronti, all’erta…
Vorremmo essere avvisati.
Vogliamo sentire arrivare il nemico.
Sentire che arriva il male.
La malattia.
Il virus…

E come mi sembrano terribili, questi rumori invisibili.
Come mi sembrano spaventose queste urla che si sprigionano, adesso, dentro di me, da quegli affamati eserciti in lotta.
Sento il grido acuto, e l’ultimo sospiro del batterio che, lanciato all’assalto, alla fine muore, sconfitto, dalla chimica guerra che si svolge dento di me.
Il lubrico riso degli assedianti che, dopo giorni, o forse, mesi, o anni, si trova senza rifornimenti e deve scappare via quando sopraggiungono i rinforzi che bevo come medicina alleata…

Mi sembrano suoni di una guerra silenziosa.
Io, che sono diventato un campo di battaglia.
Una repubblica sotto attacco.
E, in silenzio, sto, teso, ogni istante, per sentire l’arrivo del virus assassino.
Il temibile killer.
Contro il quale non posso che starmene inerte, indifeso, solo.
Come la sentinella di notte.
Nel buio.

REPUBBLICHE INDIPENDENTI

coronavirus-filax660

In fondo siamo diventati tutti delle repubbliche indipendenti, in questo isolamento di quarantena nel quale siamo rinchiusi.
Ognuno è diventato un pezzo di territorio circondato da confini che non possono essere valicati.
Siamo al tempo stesso liberi e prigionieri, sani e malati.
Ci siamo armati con le poche armi che abbiamo saputo trovare finora, un foulard, una mascherina, un liquido per le mani.
Ci siamo circondati del più accessibile, perforabile, inutile filo spinato che un esercito in guerra abbia mai utilizzato per delimitare i confini.
Già i cavalli firisia, le barriere, i muri, le mura le muraglie, i fossati, i valli… altro non sono stati che fragili e ingenue difese alzate, o scavate, più nella testa che sulla – o nella – terra, per fingere, o meglio per illudersi, di potersi appropriare di un territorio, quale esso sia mai stato.
E per poterlo difendere.

Le repubbliche, e prima, gli imperi, i regni, le città-stato, e più giù, le fortificazioni, i castelli, i maschi, le torri ed i torrioni…sempre, ogni volta, questi inani sforzi dell’ingengo umano hanno ceduto, sono franati, sono stati conquistati, oppure, nell’infinita corrente del tempo che scorre, si sono consumati, tassello dopo tassello, pietra dopo pietra…
Nessuna difesa ha trattenuto i confini, molli, malleabili, fluidi, elastici, permeabili…
Illusione dell’illusione di essere eterni.
E come repubbliche indipendenti, adesso, ognuno di noi, cerca di resistere, di ergersi come un basione, di contrapporsi alla natura.
Ma siamo di carne, di sangue, di aria.
Carne della carne, sangue del sangue, aria dell’aria.
Il virus ci nutre e noi nutriamo il virus.
In un mutuo scambio di vita.
Ma ne abbiamo paura.

Adesso ci guardiamo l’un l’altro.
Ci riconosciamo a stento l’un l’altro.
In fila, davanti ai supermercati, ad un metro di distanza ci illudiamo di essere diventati disciplinati.
L’ordine sembra sarricurarci.
Ma la spia della paura è il silenzio.
Il silenzio, come un bozzono, avvolge ognuno di noi.
Nessuno ride.
Nessuno parla.
Nessuno si muove.
Quasi nessuno.
Ho visto, nella mia fila, un gruppetto di immigrati mussulmani.
Fumavano e parlavano a voce alta nella loro lingua gutturale incomprensibile.
Ridevano.
Portavano le mascherine d’ordinanza.
Solo ieri avremmo urlato terrorizzati che stavano per esegire una ttentato.
Adesso, nessuno di noi li osserva neanche.
Niente di speciale.
Tutti, noi, con i foulard sul volto, le mascherine improvvisate, il fiato trattenuto a stento dalla paura, adesso stiamo rinchiusi nel bozzolo di solitudine che ci siamo cotruiti attorno.

Adesso cerchiamo riparo dietro la nostra cortina.
La nostra repubblica indipendente è avvolta in un bozzolo di filo spinato.
Fatto di esile silenzio.
Adesso cerchiamo riparo dietro ogni confine.
Si fermano gli aerei, le navi, i treni, le auto, le biciclette.
Neanche a piedi possiamo andare a cercare di vivere un poco più in là.
I muri li abbiamo alzati, se mai servissero a qualcosa.
I muri li stiamo alzando, se mai fermassero il nemico.
Muri che stanno nel bel mezzo del mare, oppure al confine assolato del Messico.
O là, dove s’intravedeva la luce, alla fine dei tunnel.
O dove finiva lo sferragliare ritmato dei binari impazziti e s’accendeva la luce del giorno, alla fine delle gallerie lunghe, a volte, come la notte.
E anche sui passi montani, dove, tra le vette innevate, la coltre dei ghiacci gelava un eterno silenzio.
Eppure tutti questi muri, oggi, funzionano al contrario.
Ieri i muri difendevano i ricchi dal contagio della peste dei poveri.
Oggi i muri proteggono i poveri contro il virus che viene dai ricchi.
Ieri i muri separavano il ricco mondo del nord da quello affamato del sud.
Oggi, invece, i muri dividono i malati ricchi del nord dai sani affamati del sud.

Discorso a due ed uno

 

8781333359d4629308323a2fa561cfc2

Chissà perchè una chiacchierata, imprevista, a volte, lascia un’eco che si prolunga, per minuti, per ore, nei giorni, nel tempo.

E il tempo, così, acquista un’entità tutta sua.

E col tempo, anche noi, ci allarghiamo, e diventiamo memoria, minuti, ore, giorni, qualcosa che diventa più vasto, che non conosce nè ieri, nè oggi, nè passato, o futuro…

Basta, alle volte, una chiacchierata imprevista…

Sarà l’argomento, chissà, sarai tu, che hai parlato con me, saremo noi, che, alle volte, parlando diventiamo una cosa soltanto…

La solitudine è una bella compagna, aiuta a pensare, a capire… ma alle volte è meglio essere in due e cercare di capire, di pensare… perchè non è lo stesso, pensare e capire, oppure cercare, cercare, e cercare ancora, di capire, e di pensare…

E mi dispiace, P., se qualche parola l’ho sbagliata pure, e se qualche parola, a te, non te l’ho fatta neppure dire, preso dalla foga di parlare, e dire, e ricordare… era solo una via per cercare, per cercare ancora, e ancora per cercare… di capire, di pensare… era l’allargarsi dell’essere, del vivere, del tempo, che con un abbraccio ci stringeva…

E certo potevamo anche parlarci addosso parole su parole, discorsi su discorsi, abbracciarci di cose dette, vite vissute e, poi, ieri, rivissute attraverso il raccontarsi…

Essere qualcosa, così, le parole, ci fanno diventare una cosa sola, comunione di noi stessi….

Raccontarsi vicendevolmente, stretti stretti dal soffio caldo della voce, come un racconto solo di due, il vento lieve della vita che ci portava in giro, di qua e di là, sulla giostra del mondo, dondolati, all’indietro, nel tempo di ieri, e, con un colpo, una parola, poi, in quello di oggi, e poi più su ancora, nel tempo di domani…

Fatti di parole, appunto, stretti stretti in quelle braccia fatte d’aria, leggere e immateriali, impastate della  stessa a consistenza del tempo… il tempo che s’allarga nello spazio, il mondo che si fa unica parte di tutte le sue coordinate e nel quale, gli uomini, nei secoli, hanno trovato…. una prigione…

E da quella siam fuggiti…

Chiavi, quelle parole, ieri, ci han liberato, hanno aperto i chiavistelli, la serratura della vita…

Dalla cella si son fuggite, le nostre parole, e andate libere,  nell’aria, dapperdove, ci hanno liberati…

E mi scuserai ancora del non saper stare silenzioso ad ascoltarti, a leggere nei pensieri tuoi, sulle tue labbra, nel cuore, che mi parevano, quelle parole tue, come sorgenti da sorgente calda, nutrienti cone latte dolce, familiari, ecco, si le tue come le mie stesse…

Ecco, il tempo ti ho rubato.

E pure, questa volta, furto del furto è stato il sentire insieme, e mio, il tuo sentire, come il tempo che ci stringe insieme tutti, ci fa una cosa sola, noi, esseri che umani ci sentiamo.

Noi, io, e te, e le parole dette che dicevano, di tutto, e noi, e per noi e tutto e per tutti, ecco, le parole che dicevano d’un mondo tutto, di tutti, intero, di passioni e civili sentire e muovere, perchè, le parole, a volte, sono muover passi, andare, marciare, e uniti, esser forti, insieme, d’un amore umano che gli umani soli si sanno dare.

E’ forza, e con la forza, le parole si sanno dare, e unire, insieme, in un cerchio solo, la vita che è passata e quella che ora è attorno, e quello che fu mio e che, invece, te, P., giovane, ora, sei viva, e forte, sento la presenza tua.

Fu che ci unisce qualche cosa, una forza, le parole, il sentire, il viver la vita con gli stessi occhi e bocche e  gli anni, andare, ed esser, ed esser andati, mai, ancora, invece, qui presenti, e te, e in me, e io, in te, come la mie e le parole tue…

E spazio, e tempo, e io, e noi, tu, ogni cosa, tutto si è perso intorno, s’è fatto uno solo, in un qualcosa che non so dire, ma era, è stato, ieri, quando il tempo s’è fermato, e allargato, è sprofondato, e in un vortice siam volati, a costruire il mondo, chissà, non ci riusciremo, ma non conta, non siam fabbricatori, ma abitanti, d’un solo stesso mare…

E così siam fuggiti di prigione, sulle ali ci siamo alzati in volo, dalle mani del tempo siamo scivolati via, fra le dita, liberi dalla gravità che fa, altrimenti, pesanti prigionieri…