QUARANTENA

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Emile CIORAN

LE DOMENICHE DELLA VITA
Se i pomeriggi domenicali si protraessero per mesi, dove andrebbe a finire l’umanità, emancipata dal sudore, libera dal peso della prima maledizione? L’esperimento varrebbe la pena di esser fatto.
Con ogni probabilità il crimine diverrebbe l’unico svago, la dissolutezza parrebbe candore, l’urlo melodia e il sogghigno tenerezza.
La sensazione dell’immensità del tempo farebbe di ogni secondo un supplizio intollerabile, una cornice da esecuzione capitale.
Nei cuori pervasi di poesia si insedierebbero un cannibalismo annoiato e una tristezza da iena; i macellai e i carnefici morirebbero di languore; le chiese e i bordelli risuonerebbero di sospiri. L’universo trasformato in pomeriggio domenicale: è la definizione della noia — e la fine dell’universo…
Togliete la maledizione sospesa sopra la Storia: questa si annulla subito, così come l’esistenza, nella vacanza assoluta, svela la propria finzione.
Il lavoro costruito nel nulla crea e consolida miti; ebbrezza elementare, esso suscita e mantiene la fede nella «realtà»; ma la contemplazione della pura esistenza, contemplazione indipendente da gesti e da oggetti, assimila soltanto ciò che non è…
Gli sfaccendati allertano più cose e sono più fondi degli indaffarat: nessun compito limita l loro orizzonte; nati in una eterna domenica essi guardano – e si guardano guardare. La pigrizia è uno scetticismo fisiologico, il dubbio della carne. In un mondo ebbro di ozio, soltanto loro non sarebbero assassini. Ma essi non fanno parte dell’umanità e, poiché il sudore non è il loro forte, vivono senza subire le conseguenze della Vita e del Peccato. Non facendo né il bene né il male, disdegnano — spettatori dell’epilessla umana — le settimane del tempo, gli sforzi che asfissiano la coscienza. Che cosa potrebbero temere dal prolungarsi illimitato di certi pomeriggi se non il rimpianto di aver sostenuto evidenze palesemente elementari? Allora l’esasperazione nel vero potrebbe indurli a imitare gli altri e a cedere alla avvilente tentazione del lavoro. Questo è il pericolo che incombe sulla pigrizia — miracolosa sopravvivenza del paradiso.
(L’unica funzione dell’amore è quella di aiutarci a sopportare i pomeriggi domenicali, crudeli e incommensurabili, che ci feriscono per il resto della settimana — e per l’eternità.
Senza l’impulso dello spasmo ancestrale, ci occorrerebbero mille occhi per lacrime nascoste, oppure unghie da rosicchiare, unghie chilometriche… Come ammazzare altrimenti un tempo che non scorre più? ln queste domeniche interminabili il male d’essere si manifesta pienamente. A volte riusciamo a dimenticare noi stessi in qualche cosa; ma come fare a dimenticare noi stessi proprio nel mondo? Tale impossibilità è la definizione di quel male. Chi ne è colpito non guarirà mai, nemmeno se l’universo cambiasse completamente. Solo il suo cuore dovrebbe cambiare, ma esso è immutabile; sicché, per lui, esistere ha un unico senso: immergersi nella sofferenza — fino a che l’esercizio di una quotidiana nirvanizzazione non lo innalzi alla percezione dell’irrealtà…)

Emile CIORAN. Sommario di decomposizione (1949)

Il Sommario è un libro che ho comprato tanti anni, tanti.
Cioran è un autore nichilista, credo sia la definizione perfetta della sua opera, anche se non so, in realtà, come venga catalogato dai critici letterari.
La sua opera, questa intendo, è, come dice il titolo, la più assurda – per me – attività artistica che un essere umano possa avere mai tentato: descrivere, da vivo, il nulla della vita, l’inane tentativo che si compie, come Sisifo, ogni volta, nel provare a dare senso al fatto di essere al mondo.
E’ scritto così bene, così lucidamente, da provare paura, nel leggere il Sommario, per il fatto di stare compiendo – per l’ennesima volta, uomo, sulla terra, che, ennesimo dopo ennesimi vani inutili tentativi, si illude di porvare a dare senso al fatto di esser vivi – quell’inane tentativo. Così perfettamente viene dimostrata tale inutilità, tale insensata stupidità, da non dare più alcun senso all’idea di continuare a vivere nello sforzo di essere al mondo.

Pure se Cioran è stato uno scrittore straordinario – la bellezza convincente della sua prosa profetica è tra le più alte vette letterarie che abbia avuto modo di conoscere – io non lo amo molto.
Quando ho provato a leggere il Sommario – che sa di necrosi, di morte, di decomposizione, appunto – mi sono domandato il senso.
Cioè, se non ha senso l’esser vivi, e ciò viene dimostrato assolutamente in modo inappellabile – che senso può avere avuto, per l’autore, mettersi a scrivere?
Quale sentimento può averlo mosso, spinto?
Certo non empatia per i suoi simili.
Nè desiderio di sentirsi vivo.
Al massimo, un tentativo di autinganno, di autoillusione.
Consa può averlo convinto, lui zombie vivente nella consapevolezza della nullità di ogni sforzo, ad uscire dalla tana sotterranea in cui si consuma la vita di ogni bestia umana?

Kafka, già qualche decennio prima, prima della grande guerra, ma presago del rischio di annichilimento della vita, con il racconto “Nella tana”, aveva dato forma descrittiva al lavorio continuo, inessante, istintuale, in cui si consuma la vita della bestia-uomo.
Ma pure se ridotto a bestia-uomo, come nella “Metamorfosi”, uomo-insetto, uomo-blatta, strisciante, viscido, lurido, anche nella tana, la vta resta l’unico istinto a cui si sottomette la massa pulsante fatta di carne e sangue che si chiama Uomo.
In Kafka, però, la vita resta dominatrice, forza a cui non si può ribellare l’essere naturale, seppure quell’essere ha perduto le fattezze umane, e con esse ogni senso di umanità. Dove umanità significa empatia, sentimento, anima, coscienza.
Però neppure Kafka aveva mai pensato, credo, che vivere fosse uno sforzo senza senso.
Si vive per espiare, per essere sottomessi alla forza brutale dell’istinto, alla bestialità del giogo sociale, ma anche se in quello sforzo animalesco, resta la necessità di vivere, una specie di fiamma che assomiglia alla speranza.
Vana, ma pur sempre una speranza.
Per Cioran quella fiamma si spegne del tutto.
Fine della speranza.

Questo è, almeno, quello che ho capito io, dalla aprte di libro che ho letto, perchè, in effetti, non l’ho letto, poi, fino in fondo.
Ma non perchè non fosse una bel libro.
Certo, se fosse stato un romanzo, lo avrei divorato, perchè il convincimento della finzione che avrebbe animato l’autore nel comporre, mi avrebbe fornito l’antidoto contro il nepente di tanta amara descrizione della vanità dell’essere.
Invece, ad un certo punto, mi sono posto quella domanda: Perchè? Quale finalità ha mai spinto l’autore a coltivare quello sforzo inumano?
Perchè pubblicare il Sommario?
Per il gusto di togliere ogni illusione agli altri suoi simili e fornire una buona ragione per lo sterminio collettivo?
Oppure, la pura vanità di apparire, se non si può Essere?
Mettersi una maschera per non comparire vuoti nello specchio in cui ci si riflette ogni mattino?
Una debolezza, una caduta tremenda di stile?
Comunque, nessuna di queste può essere una buona ragione, ho pensato, per continuare questo libro.
O è falso il libro, o preferisco continuare a vivere a modo mio.

Eppure, in questi giorni la vita pare sospesa.
Nelle pagine di Cioran si trova qualcosa che assomiglia paurosamente a quei pensieri che, sullo sfondo, tingono di scuro lo sfondo della vita al tempo del coronavirus.
Non è tanto una sensazione di paura, quanto una velatura di inadeguatezza.
La sensazione di essere sospesi fra un tempo passato – quello ieri così vicino al giorno di oggi che dura da quasi sei settimane, ormai – e un tempo futuro in cui poco a nulla assomiglierà a quello che conoscevamo.
Eppure, noi, la nostra generazione di viventi, come forse nessun’altra, mai, prima, abbiamo conosciuto la vita vivida e gorgoliante di incertezza del post-moderno.
Nessuna possibilità, più, ormai, avevamo, di poterci immaginare – o così ci pareva, almeno – il futuro, gravido di cambiamenti epocali, climatici, tecnologici, filosofici.
Siamo stati personaggi – comparse, più spesso che protagonisti – di una fantascienza senza limiti, di una realtà in grado di andare al di là di ogni fantasia o immaginazione, al di là del bene e del male…

Adesso, in questo tempo sospeso di quarantena, anche i nostri pensieri sono in quarantena.
Sembra di poter intravedere, pensandoci, un domani in cui anche i parametri dell’incertezza – in cui escresceva il nostro (passato) presente – si stannoo frantumando.
Vediamo, come in un ralenti onirico, andare in frantumi i criteri su cui si sono formate le nostre capacità di rappresentarci il futuro.
Anche la durata del tempo sembra essersi dilatata a dismisura, fino a farci apparire gli istanti lunghi come ore e le ore come anni.
E, così, immaginarci il domani senza quarantena, senza distanziamento sociale, senza più le misure di protezione da noi stessi, più che dagli altri, diventa un esercizio pericoloso, in cui si perde il senso della realtà, nel quale la concretezza sfuma in sogno, o in incubo, in certi istanti di agonia.
Cioran non avrebbe saputo dire meglio tutto questo.
Perchè anche lui ancora credeva nel propagarsi della pandemia letteraria.
Mentre noi, nella nostra pandemia virale, potremmo trovarci ad aver perso anche il senso delle parole.
E, in queste domeniche di silenzio, di pigrizia forzata, sembriamo fuorisciti dall’umanità.

2 pensieri riguardo “QUARANTENA

  1. Prima del tuo “perché” avevo già detto il mio. Che senso ha vivere se la vita non ha senso?
    In questi giorni di pandemia a causa della quale il nostro crederci superuomini (o superdonne) ha preso uno schiaffone tale da scaraventarci a terra senza un appiglio che ci permetta di rialzarci, invece di pensare ad un futuro che non riesco ad immaginare sto cercando di approfittare del tempo per conoscermi meglio. E’ un lavoro a volte doloroso ma chiarificatore e mi dà quel tanto di ottimismo che mi fa sperare che ce la faremo.
    Certamente la lirica di Cioran è accattivante e pericolosa, bisogna avere molto giudizio per leggere e non farsi rendere dal pessimismo più totale …
    Mentre tu dai sempre lo spunto per mettere in moto il cervello! Grazie Piero e buona domenica! (oggi 19/04)

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  2. Carissima Fausta, è molto bello quello che dici.
    Conoscersi meglio.
    E’ un’attività …impegnativa, ammirevole, lo dico con il massimo della stima che ho per te, per quello che ti conosco.
    E’ un riempire di senso l’esistenza partendo da ciò che, forse, è l’unica (pur incerta) certezza che ogni uomo (o donna) ha.
    Conoscersi… ovviamente è complesso, ma capisco e apprezzo molto.
    Per il resto, prima o poi passerà questo periodo cupo, e ci lascerà cambiati, ma pur sempre noi stessi, diversi eppure sempre noi.
    E così anche il mondo, sembrerà uguale e tutto diverso…
    Comunque ci vogliamo essere, anche per capire.
    E capirci.
    Un caro abbraccio,
    Piero

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