LA BELVA

Hai morbide cadenze.

Muovi passi lenti,

Salti agile,

belva felpata.

Ti muovi nella foresta

della città.

Ti muovi da fiera

e puzzi selvatica.

Ed il tuo pasto

è carne fremente.


Mangiafuoco ha aizzato

la tua fame insaziabile

L’impresario. Epimetèo.

Ha aperto la tua gabbia.

Pandora famelica.

Consumi ansimante, bestia,

lo spazio della città.

Divori gli agnelli

mentre gemono

le madri innocenti.


Ti nutri di sangue caldo,

dea senza tempio.

Non ti nutre la gloria

dell’occhio di cristallo.

Ti attrae senza freni

l’amplesso selvaggio

della massa tumultuante.

Belva senza requie

che ti aggiri nella foresta

dei tronchi di luce.


Un pazzo sacerdote

della religione della luce

a catòdi ti liberò.

E irradi per le vie morte

la tua vibrazione di dolore

senza fine.

Il tuo odore fradicio

conquista l’animo

delle vergini immacolate

e degli innocenti rami d’ulivo.


Attendono ansimanti

e sudate le vittime

l’ultimo respiro singhiozzante.

Mentre affondi  le lame

dei tuoi denti affilati.

Porgono la gola, il cuore,

alla tua fame senza fine.

Alzano preghiere, gelide,

anzichè pianti, o fremiti

di pallida paura.


Ti ha liberato il funambolo.

E ti ha ordinato, compiacente,

di restare al suo servizio.

Ti ha liberato il re dei trucchi.

E tu,

infame belva senza vergogna,

obbedisci come una cagna.

Tu,

che non hai padrone

tra le genti sulla terra.


Ha aperto la tua gabbia,

immonda bestia degli inframondi,

armato del suo sorriso scintillante.

E tu,

padrona delle calde creature,

hai scelto il suo servizio.

Tu,

docile angelo con la spada di fuoco,

innalzi ora il tuo ruggito,

schiava, adesso, nelle piazze affollate.