A pallone …

  

Mi piace questa fotografia.

In quest’immagine, sospesa in un iostante fuori del tempo, Pasolini è vivo.

Sì, lui, qui, è vivo davvero.

E così, come in questa foto, anzi, proprio grazie ad essa, lui, è vivo e vivo resterà per sempre.

  

In questa foto gioca, come un bambino.

E se  io lo voglio, lui resterà sempre così, un bambino vivo che gioca, si diverte, scarta la morte e fa goal.

E vince.

E così la vita e la morte obbediscono a noi. 

 

La sua vita, la vita di Pier Paolo, mi serve.

Mi è necessaria.

Come l’aria.

Come l’acqua.

Come il cibo.

Nutrimento per l’anima.

Mi serve la sua vita, come il suo pensiero, la sua lucidità, la sua consapevolezza, la sua sensibilità, la sua sofferenza, il suo amore per chi è debole.

Tutto questo mi serve.

 

 

Ascoltare oggi le sue parole è … sapere che eravamo stati avvertiti, informati, avvisati.

Sapevamo che il pericolo era in agguato.

Avevamo un fratello, più grande di noi, e più saggio, che ci amava.

E voleva aiutarci.

Ci diceva che non è ineluttabile la storia, non è già scritto il destino di un popolo, si può, anzi, si deve indirizzarlo al Bene.

Non è prestabilito il dominio del più forte sul più debole, del più feroce sul più mite !

Si deve prendere per mano la Soria, accompagnarla per le strade, indicargli il Male, mostrargli le ingiustizie e convincerla a lottare con noi. E lei sarà nolstra compagna !

Coraggio, ci vuole, e fede e impegno e …


Corriere della Sera, 14 novembre 1974

Cos’è questo golpe? Io so

di Pier Paolo Pasolini

“Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.”

 

Confrontarsi con la lucidità di Pasolini è difficile.

Le sue tesi sono ferite delle coscienze, impietose.

Le sue parole sono profezie taglienti come lame.


Profezia

I passi


In un letto d’ebano adorno
di aquile di corallo, Nerone dorme
profondamente – incosciente, calmo e felice:
pieno di vigore nel corpo,
e nella bella esuberanza giovanile.

Ma nlla sala d’alabastro che racchiude
l’antico larario degli Enobarbi,
quanto sono inquieti i suoi Lari.
Tremano i piccoli dei della casa,
e cercano di nascondere i loro corpi minuti.
Hanno sentito un atroce suono,
un suono di morte salire su dalla scala,
passi di ferro che la fanno tremare.
E ora i miserabili Lari impauriti
si rintanano in fondo al Larario,
si spingono, inciampano,
i piccoli dei cadono gli uni sugli altri,
perchè hanno capito cos’è quel suono,
hanno ormai sentito i passi delle Erinni.

1909.  Kostandinos Kavafis



L’oracolo non riusciva più a stare nel suo letto di legno. Le foglie secche del pagliericcio scricchiolavano e non gli consentivano più di continuare il suo sonno premonitore. Quella notte era lunga. E fredda. E inquieta. Era sudato. Nonostante il freddo mordesse i piedi nudi che sporgevano dalla tunica pesante di lana delle sacre capre dell’Elicona.

C’erano voci che non riconosceva, nella sua notte di sogni agitati. Sollevò il calice e si fece mescere dalla vestale profumata ancora una dose di ambrosia. L’aveva rubata agli dei stessi, quella ricetta. L’aveva scambiata con Dioniso, in cambio di una notte d’amore con la baccante profumata che accudiva i riti delle feste del dio.

Il dio riccioluto aveva scambiato il suo segreto per una notte d’amore con insolita disponibilità. Era abituato alle feste d’orgia e di piacere. Era l’invitato d’onore. Il suo segreto, invece, era invidiato da tutti. La sua fonte di sapienza. E di abbandono. Il dio voleva carpire il segreto dell’oracolo. Il segreto che consentiva a quell’uomo insignificante di accedere alla conoscenza riservata solo agli dei.

E anche questa era una ragione di inquietudine per il vecchio canuto che tremava nel suo letto nascosto dall’ombra della notte. Suoni. Voci. Rumori. Passi. Canti. Urla. Era come una tempesta che infuriava sotto l’impeto incontenibile degli dei. Era una notte agitata e sbattuta dai venti sfuggiti al controllo del guardiano divino. Era la notte della resa dei conti. Era la notte in cui il segreto doveva essere confidato. La promessa mantenuta.

Il calice d’oro pieno d’ambrosia dolce fu svuotato. E ancora una volta chiese alla giovane vergine di riepirlo. E ancora lo vuotò. E la confusione nella sua testa cominciò ad aumentare e a contagiarsi alla vista. Confusa dal buio. Confusa dalla malattia che gli aveva reso glauche le pupille. Confusa dagli effetti di quella pozione che il dio della Vite gli aveva doviziosamente servito.

La giovanetta odorava di vita e di gioventù. Il vecchio si accucciò ancora più in fondo al suo giaciglio. Un altro sorso gli spaccò il cuore. E dalle sue mani sbocciarono mille serpenti. E dai suoi occhi scoccarono mille e mille lingue di fiamma. E dalla sua bocca tuoni, e boati, e vortici di mille tempeste. La fanciulla innocente si accasciò al fianco della figura di dio che aveva trovato posto nel pagliericcio.

Le mani del dio erano mille. Il suo desiderio di fuoco. La vergine sacerdotessa atterrita di dover adempiere ad un dovere così terribile. Ma il dio, volubile, era tutto per il vecchio oracolo. Egli conosceva la via per la verità. Egli aveva sovvertito la sorte degli uomini divulgando le parole che erano proibite. Egli aveva avuto accesso alla sapienza degli dei, pur essendo un misero scarto impuro d’umanità.

Il cuore del dio ribolliva. Rabbia. Paura. Terrore. L’oracolo immondo aveva profanato la dimora dalla sapienza. E aveva aperto una porta nelle mura del palazzo della Verità. Rabbia, paura, terrore percorrevano i fasci di nervi del dio che emanava saette dagli occhi rivoltati e bianchi. La sua bava era fiele ribollente.  La sua natura di dio era furente e prendeva forma fuori di lui duplicando quello spettacolo d’ira terrificante.

Paura e rabbia rendevano il dio simile a un demone. Paura di essere spodestato dal trono della sapienza eterna. Rabbia per una misera carcassa umana che aveva osato usurpare il segno distintivo degli dei. Sangue. E carni lacerate. E odore di grasso bruciato. E urla. E lamenti. La ragazza aspettava che l’incoscienza dell’oblio l’allontanasse da quella scena. Il vecchio, rannicchiato in fondo al suo sacco di pelle raggrinzita silenziosamente attendeva. In silenzio.

Il silenzio diventò un macigno. A poco a poco riempì la cella sacra del tempio. La colmò del tutto. Il dio furente come un oceano in tempesta, a poco a poco, si chetò. Riprese la sua forma di candida statua marmorea con una lentezza esasperante, resa estenuante dal timore che ogni attimo d’ordine ritornasse ad assumere la forma di caos informe che aveva imperversato in quel cubicolo al centro del tempio.

Il vecchio aprì la bocca come per faceva di solito quando stava per mettere un oracolo. Sudava. E c’era freddo, in quella notte di fuoco. Il vecchio si voltò, allora, d’improvviso verso la statua del dio e sorrise triste. Tese una mano e cominciò a raccontare. Era ubriaco, forse. Il sangue gli scolava lentamente da un angolo della bocca. Forse era un rigurgito d’ambrosia che era scivolato via dal calice.

La sua voce era malferma, e le sue parole incerte, confuse, come erano sempre le parole dell’oracolo quando attingeva alla verità degli dei. Una verità che non capiva. Parole che sgorgavano come fumo dalle braci bagnate. Si alzavano e si perdevano lentamente d’intorno, lasciando un acre odore di zolfo misto al profumo dei chiodi di garofano dell’ambrosia celeste.

Nel corteo dell’imperatore, accampato fuori dal tempio, intanto, la folla di dignitari ormai orfani del loro figlio prediletto si interrogava attonita.

Nessuno aveva compreso lo sgomento dei piccoli Lari mentre avevano tremato.

E nessuno aveva udito il pesante passo delle Erinni che scuoteva il terreno, mentre si avanzavano per riscuotere il frutto della loro atavica vendetta.

Nessuno aveva udito l’imperatore Nerone piangere ed implorare.

Il frastuono delle urla mentre il corpo dell’imperatore veniva sbranato dalle mostruose creature del destino era stato sommerso da un mare di silenzioso torpore.

Nessuno aveva potuto comprendere per tempo le parole dell’oracolo.

Nessuno le aveva udite.

Nessuno aveva udito l’oracolo parlare.

E lo accusarono di tradimento.

E lo arsero su un’alta fiamma.

Mentre la statua del dio, nascosta sotto un pesante mantello rubino, sorrideva.

E d’intorno si sparse un profumo fruttato. Forse l’ambrosia, che era andata perduta dall’ultimo calice che la sacerdotessa vergine aveva riempito per brindare al segreto strappato agli dei in quella notte di fortuna per il popolo della città sottratta alla crudeltà del tiranno.