UNA SERA FELICE

photo by Pierperrone
photo by Pierperrone

Ho guardato attraverso i vetri, e ho visto.
… Il sogno.
Era dentro una stanza.
Illuminata da una luce gialla.
Una stanza.
In realtà era un grande stanzone.
Diviso i due da un accenno di parete divisoria, come un dente sul soffitto.
Un tramezzo tagliato, appeso ancora là, al solaio.
Attaccato, forse, al ricordo di qualcosa che ora non c’è più.
Ad un sogno.
Quel sogno.
Il sogno che stava proprio dietro a quei vetri.

Fuori pioveva.
Ci stavamo bagnando come…
Non importa come cosa, ci stavamo bagnando.
Io e lei.
Io e te.
Un tempo passato insieme.
Un tempo che non si può più contare.
Un tempo che è un’altra parte di me.
La mia stessa ombra, forse.
La mia stessa anima.
Forse sei tu, quel tempo, amore mio.
Tu che ne sai?
Se te lo dico, amore mio, si perde il silenzio.
Finisce l’incantesimo.
Il silenzio è la magia che tiene in piedi l’incantesimo.
La magia del tempo.
Quel tempo che dura tanto..

Pioveva.
L’acqua, spinta dalle raffiche del vento, attraversava la notte come una freddo pettine d’acciaio.
Colpiva come una frusta leggera.
Lasciava segni sul soprabito, piccole scie lucide, gocce gialle colate da qualche lampione che scivolavano fino a perdersi dietro l’orlo.
Segni lunghi.
Ferite di sangue color ocra.
Sangue che, scendendo sempre più giù, si faceva scuro.
Dello stesso colore della notte.
Di quella notte.
Della notte della tarda primavera che sembrava che fosse tornato l’inverno.
Alle volte succede, il tempo si volta indietro, a guardare, a cercare forse qualcosa, ad attendere qualcuno che s’è attardato…
Che ne sappiamo, noi?
Alle volte succede.
E’ maggio.
E le rose sono schiuse, come donne in amore.
E il vento, che porta i profumi dei fiori lontani, d’improvviso si gira.
Si ferma, per un attimo, l’aria.
S’immobilizza.
E poi comincia a svolgersi alla rovescia.
L’odore dell’umido.
La terra bagnata.
Il freddo che punge…
Arriva qualcuno in ritardo.
S’era attardato.
E il tempo s’è voltato a guardare.
Un latrato.
Un’eco lontana della stagione già trascorsa.
… Forse, si tratta solo di rimettere i ricordi al posto giusto.
Così, le tessere del mosaico tornano in ordine.

Ma non era così.
O meglio.
Sotto la pioggia, di sera, stavamo davanti alla vetrina e cercavamo solo un posto dove mangiare.
Stanchi, come ci piace essere stanchi.
Quando le cose sono al loro posto.
E la stanchezza non è ansia delle cose sparse alla rinfusa da un colpo di vento improvviso.
Pioveva a raffiche strette.
Denti di balena, leggeri e fitti fitti.
Un vapore umido avvolgeva i lampioni aggrappati ai muri screpolati.
Gli spigoli dei vecchi mattoni di creta rossa erano consumati dal fiato profondo di mille stagioni.
Un cane randagio ci è passato vicino, ha annusato le tue scarpe bagnate e ti ha guardato in modo strano.
Ti voleva chiedere qualcosa, ne sono sicuro.
Ma poi ha desistito.
Avrà pensato che non ne valeva la pena, con due tipi come noi.
Cosa mai potevamo raccontargli di nuovo, noi, stranieri in questo incantato paese, a quel cane randagio, saggio, maestro della dotta sapienza dei cani randagi?
Con un gesto distratto ha voltato la testa ed è andato.
Rapido.
Aveva certo qualcosa d’importante da fare, qualche commissione, un’ordinativo da consegnare, una missione da compiere.
E’ svanito nel nulla com’era arrivato.
Dal nulla.
Noi abbiamo sorriso.
Senza capire.
Senza avere neanche un motivo.
Così.
sarà stato quel cane randagio.
Sarà stato l’imbarazzo d’esser restati così.
Lì.
Davanti alla grande vetrina.
A cercare qualcosa da mangiare.

Quando ho guardato dai vetri ho visto.
Il sogno.
Una grande stanza piena di luce gialla.
Immersi in quel mare denso, sospesi fuori dal tempo, da secoli, stavano due tavoli quadrati.
O erano tre, o quattro.
Ed altri, forse, stavano ancora nascosti, vuoti, dietro a qualche angolo nascosto alla vista.
Le sedie raccolte, attorno a quei tavoli che galleggiavano nella marea morbida, erano vecchie sedie da bar.
Plastica verde.
Gambe sottili d’acciaio.
Sette, otto, fantasmi seduti a quei tavoli.
Si stagliavano chiari, dietro a quel vetro.
Dentro, morbido, il vapore dell’aria viziata s’era adagiato al vetro freddo e diritto.
S’era messo a guardare fuori dalla vetrina.
Forse eravamo stati scoperti.
Ma nessuno s’era girato a guardare.
La partita, a quei tavoli, continuava in silenzio.
I rumori della vita, una vita da bar ferma da secoli, non giungevano fuori dove noi restavamo fermi a guardare.
Forse i fantasmi non fanno rumore.
Muovono solo le bocche.
Fanno finta di ordinare una bottiglia all’oste che li guarda giocare in silenzio.
Tutto accade in silenzio, nella grande stanza dalle pareti ingiallite dal tempo.
Anche quando entriamo, il silenzio si affetta con la lama dei nostri coltelli.
Chiediamo se possiamo mangiare.
E un soffio, un sorriso.
Ci risponde di si.
L’oste, premuroso, ci prepara un tavolo tutto per noi.
Non è tanto romantico, amore mio, un tavolo tutto per noi, in un posto così lontano dall’ingiuria del tempo?

I fantasmi parlano una lingua che assomigli molto al francese.
Hanno i volti rugosi dei vecchi.
Quei volti dolci, che la fatica ha schiaffeggiato senza fare troppo del male.
O, se l’ha fatto, non ha lasciato segni troppo profondi sui volti.
Raccontano di più le mani callose.
E certe imperfezioni delle articolazioni.
Che sembrano contorcersi come nodi di vecchi alberi piantati secoli fa nella tenera terra marrone.
Gambe che sembrano tronchi incerti piantati male sul pavimento di pietra.
Braccia spuntate come rami nodosi dal fusto nascosto sotto camicie dai colletti sempre abbottonati, camicie e colletti che non hanno mai conosciuto l’onda volubile della moda passeggera e distratta.
Parlano un’incomprensibile lingua imparata milioni d’anni fa, stando in silenzio a spiare i discorsi di antichi animali oggi scomparsi.
Una lingua dolce, e morbida, elegante.
Come il francese dei vecchi romanzi di dame e cavalieri che certamente quei vecchi fantasmi hanno conosciuto portando i cavalli a bere nel fiume.
O all’acqua di qualche fontana.
Tengono stretti nelle mani strani fogli quadrati.
Segni del mondo della magia.
Che raccontano il destino del mondo.
L’eterno destino degli uomini.
Una mano si vince.
Un’altra si perde.
Finchè non finisce la partita.
Ed è sempre troppo presto, per ognuno, che, sempre, si vorrebbe chiedere, testardamente, una mano ancora, una rivincita, un altro giro di carte.
Ma la partita è finita.
E rassegnati dobbiamo riporre il nostro mazzo.
Ormai.

Siamo rimasti a lungo a guardare.
Il piatto, freddo, s’era vuotato da tempo, ormai.
Anche la bottiglia.
Vuota, ormai.
Il bicchiere, un calice piccolo da dessert, fuori luogo per un bel bicchiere d’un rosso corposo, con l’ultimo sorso, girava distratto fra le dita.
Due piatti, invero, due bicchieri, due bottiglie.
Forse eravamo un pò brilli.
Due, come le due chiacchiere scambiate con quei vecchi fantasmi senza età.
Due parole per carpire il segreto di quel gioco fatto con quei segni sbiaditi dal tempo.
Due parole di risposta, veloci.
Due segni.
Più, ancora.
Due cenni lanciati di sfuggita, come i segni che si danno i vecchi seduti a giocare alle carte nei vecchi bar di provincia, immersi nella gialla luce fioca di vecchie lampadine elettriche ormai fulminate.
Io non ho capito quella fugace lingua che ha un vago accento francese ormai consumato dall’uso.
Io non ho capito, ma siamo stati felici lo stesso, no, amore mio?
Non costa molto una serata di felicità.
La sua moneta è fuori corso, da tempo.
Non si trova nei caveau delle banche, la moneta per comparsi una serata così.
E così, quando è arrivato il momento del conto, non volevamo andarcene più.
Eravamo diventati anche noi dei fantasmi fuori dal tempo.
Parte di quel locale, immerso in un mare livido di luce giallastra di vecchie lampadine elettriche.
Stavamo bene, dietro a quel vetro col vapore liquido che scolava sulla vetrina, mente due nuovi avventori, curiosi, guardavano dentro mentre fuori piovevano, forte, grosse gocce fredde di pioggia.
Ci guardavano e in silenzio indicavano verso di noi.
Forse il silenzio voleva dirci qualcosa.
Ma, non importa, amore mio.
Il significato si perde, nelle sere felici.
La felicità si ferma per un attimo solo, e poi, se ne va, scondinzolando come un cane randagio che s’aggira distratto per le strade, di notte, sotto la pioggia gelata.
Poi, scompare.
Svoltato l’angolo consumato dal tempo.

6 pensieri riguardo “UNA SERA FELICE

  1. Mi piace leggere questi tuoi testi ad alta voce…. e come se mi riuscisse di entrare nel sogno e vederlo con i miei occhi!
    Grazie per quella frase “non costa molto una serata di felicità”….

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  2. In parte ritrovo quello che ho cercato di dire nell’altro commento. Gli attimi di felicità li abbiamo avuti. Brevi sicuramente, sempre troppo brevi. E forse non spetta a noi ora, andare a cercarne altri. O meglio, forse dobbiamo accontentarci di quello che essi ci hanno lasciato, perchè quelli che possiamo avere ora(,sicuramente potranno esserci e potranno essere anche belli.) non potrebbero però avere la stessa intensità, non reggerebbero il confronto con quegli anni, con quei noi così’ diversi… Mi accorgo che sto parlando al plurale, ma non è giusto, questo riguarda me. Per te può essere diverso, anzi, per quel po’ che ti conosco, sicuramente è diverso.
    Un abbraccio con affetto

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  3. Amica mia (è bello chiamarti così), ti leggo triste, malinconica.
    Hai qualcosa che ti pesa sul cuore.
    Non so cos’è, ma se posso in qualche modo aiutarti, anche solo nell’ascoltarti, sappi che sto qui (hai la mia mail, e i miei riferimenti li trovi, in qualche modo).

    La felicità, mettiamola così, in forma breve, è come la fenice di cui parlavano i miti antichi.
    Muore e rinasce dalle sue ceneri.
    Anche qui, non sono io a dirlo, ma le mille storie degli uomini che conosciamo tutti e due.
    Gli uomini, prima di morire davvero, nascono e muoiono tante volte.
    Basta poco.
    Non per forza devono esserci circostanze traumatiche e dolorose.
    A volte basta anche un’ombra.

    Quello che ho cercato di raccontare qui, sotto forma di sogno, è qualcosa di vero, una serata reale.
    L’ho solo nascosta un pò, per giocare a nascondino.

    Un bacio.
    Piero

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  4. Grazie Piero, in realtà non c’è nulla di particolare, solo un vago senso di rimpianto per quel tempo là, quando volenti o no, anche se spesso non lo ammettiamo nemmeno con noi stessi, eravamo diversi. Ci mancava l’esperienza della vita e se questo da un lato, ci faceva commettere errori, ci infarciva d’illusioni e di utopie, ci permetteva anche di credere senza se e senza ma, che potevamo davvero cambiare il mondo. Ora non è più così, e se manteniamo una parte di quell’entusiasmo è solo perchè non possiamo rinnegare quel che siamo stati.
    So che tu hai una visione diversa, che sotto alcuni aspetti condivido anch’io, però penso che oggi non sia più possibile trovare una forza, una ribellione, una carica di rinnovamento come quella di allora. E sai perchè? Perchè hanno tolto ai giovani quella caratteristica che li fa essere tali.Li vedo omologati. Molto concreti sì, tesi al futuro giustamente, ma al loro futuro in termini solo di materialità. Certo, è essenziale questo. sarebbe da imbecilli negarlo, ma nella maggior parte di loro vedo solo questo. Non più idealità forti, non più valori condivisi, non più voglia di ricercare qualcosa di nuovo o di diverso. Certo non è colpa loro, in parte sono costretti a questo dalla necessità. e sicuramente la colpa è anche nostra, soprattutto nostra. E anche questo mi intristisce, m’intristisce molto…
    Mi rendo conto di essere arrivata al punto del “ai miei tempi…” e odio ammetterlo sai, mi brucia da morire. ma….
    Un abbraccio

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  5. E’ tutto vero quello che dici, e quello che vedi tu non posso non vedere anche io, intorno a noi c’è proprio questo mondo fatto di accettazione quasi passiva di una realtà – specialmente in Italia – assurda, sbagliata, ingiusta, pericolosa e … quant’altro…
    Ma non è questo ciò che conta davvero, Patrizia mia.
    Qual che conta è il ruolo che abbiamo noi, in questa storia.
    Cosa siamo e cosa facciamo lo sappiamo già. Anche ciò che non siamo e che non facciamo.
    Ma ciò che conta veramente è la nostra esistenza in qualità di “testimoni”.
    Alla “Farhenheit 451”, insomma.
    E, per quanto ti conosco, credo che un pò come “Guy Montag” lo sei davvero.
    Non me lo negherai, no?
    Questo ci deve bastare.
    Poi… vivere secondo coscienza.
    E’ ciò che possiamo ed è tutto ciò che si deve.
    Un abbraccio (sono contento che tutto per il resto sia a posto. Alla “vecchiaia”, lo so, non c’è rimedio!).
    Piero

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