SPARI

 
L’aria pesante di nebbia e di fumo della notte appena evaporata si illumina poco a poco.
La prima luce che attraversa le dense tenebre è quella di un giorno in bianco e nero.
Il bianco e il nero.
Il bianco, come il bianco bianco della luce che, piano, scivola sulla spenta scena desolata della notte buia e silenziosa.
E il nero, nero come la notte nera, la notte che combatte contro l’avanzata della luce, figlia di quel giovane giorno che si fa strada fra le carcasse di auto bruciate, rovesciate, buttate al centro delle strade come vecchi stracci ingombranti.
Le teste dei ragazzi sono ancora incolte, come le chiome e le barbe, crespe, lunghe, sciatte, disordinate.
Le voci, sono voci concitate, come quelle chiome, quelle barbe, quelle facce, convulse.
Le grida si danno sulla voce, si confondono con gli ordini dei capitani, i contrordini dei drappelli di gendarmi si mescolano con quelli delle squadre di studenti che sciamano come branchi selvatici di animali senza guida.
Il calore della speranza riscalda quei cuori di acerbi figli della notte.
La disperazione, invece, stringe il cuore dei padri, il cuore dei padri dei giovani poliziotti come il cuore dei padri dei giovani agnelli imbizzarriti.
Si odono sirene, stridule e lamentose, passi frettolosi di corsa, rumori di lamiere che si contorcono, colpi sordi di tante urla.
Maledizioni e scongiuri.
Speranze e resistenze.
Era il sei di maggio.
Era il 1968.
Il giornalista, alla televisione, compassato e solitario, con voce melliflua, triste, racconta, dallo schermo, ai vecchi e alle massaie, in panotofole, sul sofà disfatto, la manifestazione rivoluzionaria, mentre fuori,  si sentono i colpi, gli spari, i lacrimogeni.
La vita entra dalla finestra, con quei rumori, con quella prima luce esitante.
Le parole trasportano lontano e suoni cupi e le immagini sfuocate che vogliono portare significati troppo pesanti,  università, studio, società, futuro, sogni.
I rulli di tamburi accompagnano in televisione le dichiarazioni dei tutori dell’ordine, di tutti gli ordini costituiti, come i rulli accompagnarono le teste coronate sul patibolo della ghigliottina molti, o forse pochi, decenni prima.
 
 
Pare di sentire la voce della lama metallica che corre sul binario di legno, il suono della lama, che è stanca di correre e, ansiosa di raggiungere il punto di riposo, si fa esile come il sibilo che attraversa l’aria prima che arrivi la pace eterna, il silenzio assoluto.
Il tonfo del fardello che rotola è cupo ed è accompagnato dalla rullata dei tamburini del popolo, come il fiotto di sangue che accompagna la triste parentesi della storia.
Ghigliottine e tamburi.
Lacrimogeni e passi di marcia.
Urla di slogan e intimazioni di polizia.
I suoni si accavallano e si confondono.
La memoria pure si confonde.
Forse io c’ero.
Forse, io ero là, a Parigi.
Forse ero alla Sorbonne, oppure ero alla Bastiglia.
Sono stato testimone di quegli spettacoli di sangue, sono stato testimone di quel qualcosa di orribile ed affascinante che si chiama rivoluzione.
Era il 1968.
O era il 1789?
Ero a Prigi.
Oppure ero a Roma?
Gli anni, i luoghi, il tempo, le città, contano poco.
La memoria non ha bisogno di appoggiarsi sui ricordi.
No, non ne ha bisogno la mia memoria, che lavora da sola.
Io mi trovo a passare da quegli anni così, per caso.
Nel 1968, il sei maggio del 1968, esattamente nel momento in cui in qualche parte d’Europa si alzavano le barricate, in qualche altra parte si facevano concerti.
 
 
Io c’ero, io c’ero!
O ci sarei stato, ci sarei voluto essere!
Si, io ci sono stato.
Io, quei Pink Floyd lì, li ho amati, li ho amati come un giovane può amare la musica.
Con tutto sè stesso, con il suo corpo, la sua mente, la sua anima.
Era un mondo di immagini, di sogni, di fantasticherie.
Era un mondo che si costruiva.
Era un mondo che non aveva eguali!
Unico.
Universale.
Straordinario e  fantastico.
Le note oggi hanno anche un volto, un’espressione, una figura, un corpo, una forma, un supporto fisico a cui si aggrappano ed al quale restano attaccate come i chicchi al grappolo d’uva.
Io, quando ero giovane non li avevo mai visti, quei Pink Floyd lì, non si muovevano, erano fissi, fermi, immobili.
Erano solo fotografie.
Immagini quasi sacre.
Come quelle dei morti.
O come quelle dei rotocalchi giovanili di allora.
Avevano il profumo del vinile.
Lo inalavo come i ragazzi di san Paolo del Brasile inalavano il bostik.
Acre, saliva e scendeva nel naso e formava nel cervello sogni e desideri.
Lo sento ancora oggi.
Come risento le note.
Quelle note.
 
 
Le note si confondo con i nomi dei locali e quelli delle città.
I palasport ospitavano concerti e proteste, come le città ospitavano proteste e concerti.
Parigi chiama Roma.
E Roma richiama Parigi.
Il mondo era piccolo, anche se mi sembrava tanto grande.
I Pink erano marziani atterrati da Marte.
Ed atterravano su dischi volanti rotanti come le lame di Mazingauforobot.
I loro suoni e i loro canti erano il surrogato dei suoni dei cortei e dei canti degli slogan che io, troppo piccolo per capire, allora, nel 1968, ignoravo.
Quando sono arrivato io, quando i miei occhi, come quelli dei gatti, si sono aperti sul mondo, c’era già un altro mondo.
Erano gli anni ’70.
Psichedelici e acidi.
Piagati dalle droghe e dalle Formazioni armate.
Bombe.
Bombe chimiche e bombe di nitrotritolo.
Bombe di polvere bianca e bombe di polvere nera.
Eroina e polvere da sparo.
Tubi emostatici e tubi per pallottole.
E, sopra a tutto, sempre e soltanto il sapore amaro del sangue.
 
 
Ma dove eravamo, noi, piccoli, allora, innocenti e idealisti?
Dove eravamo e cosa volevamo?
Discutere, parlare, combattere.
Per cosa, perchè, per chi?
Avevamo il mondo negli occhi, le speranze nel cuore, il futuro nelle mani!
E non sapevamo come prenderci tutto quel bene.
Poi, sono passati gli anni.
Ed è arrivato, implacabile, l’oggi.
Questo oggi che sembra la parodia di un incubo proiettato in un cinema dell’inferno.
Ce lo avevano detto, ma non lo abbiamo voluto sentire.
 
 
E adesso ci interroghiamo.
Innocentemente, come allora.
Mi interrogo sul come e sul perchè.
Mi chiedo e mi domando.
Cosa volevamo, cosa speravamo, dove volevamo andare.
E cosa ci siamo presi, quando finalmente ci hanno consegnato il presente nelle mani dicendoci: “Ecco, adesso è vostro, adesso andate e fate!” ?
E cosa abbiamo costruito con quegli utensili, con quegli attrezzi, con quelle nude mani?
Dove abbiamo portato il mondo, che rotta abbiamo tracciato, come abbiamo condotto quella giostra che rotola nell’universo senza nessuna meta precisa?
Mi faccio domande alle quali non riesco a dare risposte.
Qualcuno aveva già capito tutto.
E se n’è andato.
Se lo sono preso.
Cosa ancora ci avrebbe saputo dire se solo gli avessero lasciato il tempo di parlare, di dire, di scongiurarci di stare ad ascoltare, anche solo per un solo momento?
Non lo so.
Oppure, no, forse non è vero, così.
Forse lo so.
Prima però, prima di dirlo, però, voglio fare una confessione, dire io ancora una cosa.
Eravamo poco più che carne innocente, molte strane parole nella bocca e molte speranze nel cuore.
Carne, parole e speranze.
Bisogni, sogni e desideri.
Ma dato che eravamo così, non sapevamo, o non avremmo saputo, o potuto, sostenere il peso di quelle parole negate, di quelle parole che, con un colpo di accetta, ci sono state negate.
Non avremmo capito e non avremmo saputo farne tesoro.
Saremmo rimasti muti e sbigottiti, ma non avremmo capito.
Non avremmo saputo leggere, o reggere, il senso profondo di quelle verità che non abbiamo avuto il coraggio di conquistare.
Ma se avessimo voluto, potuto e saputo, allora, oggi avremmo un mondo migliore.
Un mondo così, fatto, certo, solo di silenzio e povere cose !
Un pò poco.
Eppure, certo, già molto !
Ecco, ora posso svelare cosa ci avrebbero detto e dire anche che ce lo avevano detto lo stesso, ma noi, lo stesso, non lo abbiamo voluto capire:
 
 

6 pensieri riguardo “SPARI

  1. Si, Minè, è così.
    Il silenzio.
    Senza parole.
    E’ quello che dice Pasolini quando, in fondo, ci fa capire che altro non abbiamo voluto conquistare che il benessere, il consumismo, il superfluo, cancellando ogni valore umano, quei valori che gli uomini della campagna ancora riconoscevano una generazione fa.
    Anche Zì Nicò, aveva capito. Eduardo aveva capito. Una generazione fa. Avevano capito che nelle parole, nelle conquiste, nelle corse e nelle riconrse si perde, alla fine, comunque, qualcosa.
    Certo, anche, qualcosa si guadagna.
    Ma non basta vedere il guadagno, occorre misurare anche le perdite.
    Ecco, mia cara Minetta, questo volevo dire.

    Grazie davvero per la canzone: rimette anche ordine nel mio post, perchè, a parte tutto, resta verissimo che … è un peccato morire.
    Si può discutere e, alla fine, scegliere, su come vivere, su cosa è meglio e cosa si sarebbe dovuto fare, o su cosa sarà meglio fare domani, tanto più se si sa cosa era successo ieri facendo quello che si è fatto.
    Ma resta, alla fine, una certezza sola: è un peccato morire.
    Frase che contiene alcuni effetti particolari.
    Il primo: la prima parolina.
    E’.
    Nel morire il presente finisce, diventa solo passato. Ciò che muore non è, non può più essere.
    E, se ci pensi, commettere il peccato di morire è un peccato che non si può compiere. Certo, il suicida. Si, certo. Ma quello è un’ecczione. Non è quello il soggetto della frase, del titolo di Zucchero.
    Il peccato che Sugar Fornaciari denuncia è quello comune, quello … di tutti.
    Ma, lo vedi?
    Tutti chi?
    Non noi, certo, non io, non tu.
    Noi chi?
    Quelli che non ci sono più. E quelli, allora, che peccato si possono mai portare appresso, sulla coscienza, se non ci sono più?
    Si commette un peccato andandosene.
    Peccato che scontano gli altri, quelli che restano!
    Perchè chi se ne va, pure se comunque, ineluttabilmente, paga il prezzo più alto, riceve l’offesa più grave, l’oltraggio più definitivo, comunque non sconta il peccato che compie con quell’ultimo atto di andarsene.
    Resta la considerazione malinconica, di Zucchero, che dice, fra noi, che peccato doversene, un domani, andare, sarebbe, sarà, un grave peccato.
    Ma non ci pensiamo.
    Andremo, quando sarà il momento.
    Per ora ce ne andiamo liberi per il mondo, per la vita.
    e ci basta così.
    Un bacio,
    il tuo Piero

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  2. Caro Piero,
    misurare le perdite … questo sì è impossibile. Non sono misurabili. Ma non avrebbe senso arrivare fin quì, ne ha comunque, ma sarebbe una sconfitta se non si potesse, ancora non so come, evitare che chi va non si rendesse conto di cosa gira intorno. Il tuo sguardo sereno e sincero mi rassicura. Le parole sono inutili. Ma il tuo sguardo sereno è la mia speranza.

    la tua Miretta

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  3. Quello che è successo ieri mi è chiaro solo nell’immaginario, un immaginario vivace, concreto e sostenuto. Cosa devo fare domani, come vivere … non so, intanto uso le tue parole … prestami un sogno, non te lo restituirò.
    Un bacio grande
    LR

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  4. Un saluto caro, Minetta.
    Credo di non dover commentare queste tue riflessioni. Sono molto personali, tra te e te, mi pare. Le mie parole, il post, il blog, sono uno specchio nel quale ti guardi e con il quale parli e commenti.
    E’ bello, mi piace, mi fa sentire familiare ed utile, eppure non indispensabile. Mi piace.
    Un bacio,
    Piero

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